La lettera del presidente Fontana alla Procura della Repubblica di Milano ha suscitato un certo scalpore. Il capo del vecchio Pirellone ha preso carta e penna e ha riferito ai Pm la situazione di stallo che si sarebbe creata nella macchina burocratica regionale che si deve occupare dell’acquisto dei vaccini antiinfluenzali da distribuire alla popolazione. Una decisione che, a seconda della sensibilità di ciascuno, è stata stigmatizzata con sarcasmo oppure cestinata come patetica. Una lettera che, invero, potrebbe anche essere intesa come l’estremo gesto di resa di un uomo politico finito al centro di un grave marasma mediatico e giudiziario che ne ha, obiettivamente, compromesso l’immagine e gli ha creato intorno un certo vuoto di cui si avvertono le grevi avvisaglie.

L’avesse scritta Fontana di suo pugno quella lettera in un momento di sconforto ci sarebbe stato poco da discutere. Il fatto che rechi, stando ai resoconti, la mano del suo staff legale la colloca in una prospettiva che merita qualche parola in più. Che avveduti professionisti abbiano potuto sollecitare il proprio assistito a questo gesto, impone un’attenzione che non può essere affondata nello sberleffo o nella derisione. Il presidente di una delle più importanti regioni d’Italia – messo alle strette dai grand commis che occupano i suoi assessorati sulla legittimità di un acquisto a trattativa privata di considerevoli quantità di vaccini dall’unico fornitore disponibile – non ha alzato la scure e non ha rimosso i riottosi dalle loro scrivanie, né li ha mandati sotto processo per omissione di atti d’ufficio, ma ha chiesto alla Procura della Repubblica come comportarsi e quali iniziative adottare.

Sia chiaro, se quanto è trapelato corrisponde a verità, è del tutto probabile che i Pm lombardi procedano a carico di qualcuno o per aver illecitamente istigato un dirigente a commettere un reato o per aver questo dirigente rifiutato di compiere un’ attività imposta da impellenti ragioni di sanità pubblica. In mezzo, a dire la verità e a occhio e croce, non c’è altro. O quasi. Perché in mezzo c’è che si è consumata un’altra puntata della storia istituzionale e politica di questo nazione. Senza troppe forzature, ma si deve pur dire che mai come in questi giorni la sanità calabra e quella lombarda sono apparse così vicine e tanto simili. Mai due pezzi d’Italia così diversi, per decenni collocati all’opposto di una ideale scala delle virtù amministrative e civiche, hanno alzato insieme bandiera bianca di fronte alla minaccia di indagini e denunce. In Calabria un generale dei carabinieri, dimessosi a furor di popolo, aveva fatto vanto delle proprie interlocuzioni con i pubblici ministeri e aveva eretto questa relazione a tratto distintivo e qualificante del suo approccio allo sfascio sanitario della regione.

In Lombardia, collocata dalla catastrofe pandemica al primo posto al mondo nel rapporto morti/popolazione, la macchina della prevenzione vaccinale si ferma di fronte allo sbriciolarsi delle responsabilità gestionali e invoca l’ombrello protettivo della magistratura. In Calabria, dopo giorni imbarazzanti alla ricerca di un commissario straordinario, un poliziotto di grande esperienza è tornato a riprendere le rime di un discorso interrotto dalla defenestrazione di Cotticelli. In Lombardia un sospetto immobilismo amministrativo, alimentato dalla paura di inchieste, fa’ chinare il capo al presidente della Regione che, cappello in mano, invoca chiarimenti dal palazzo di giustizia. In entrambi i casi la preoccupazione che agita la politica di questa fine di decennio sembra quella di avere una magistratura non ostile, se non addirittura amica, di guadagnarne l’assenso per non restare impelagata in avvisi di garanzia e perquisizioni. Una condizione che, onestamente, non ha eguali al mondo. L’esposizione del corpo infermo del potere politico e amministrativo, con le sue mutilazioni e le sue purulenze, è alla fine plateale, senza pudori.

Non si cercano più canali paralleli e riservati di interlocuzione – quelli che sono sempre esistiti al coperto di incontri, cene, cooptazioni, frequentazioni – tra pezzi delle toghe e settori della politica, ma ci si consegna interamente alla ritenuta sovranità giudiziaria con gesti di sottomissione che, a ben guardare, hanno imbarazzato persino chi li ha ricevuti. Situazione complessa e da cui è difficile venir fuori, soprattutto quando si tocca con mano l’esasperazione sociale di quanti pagano il prezzo doloroso del contagio e quando spira sempre più forte un vento di rancore che si tenta invano di placare con promesse di denaro a pioggia. La falce giudiziaria rischia, così, di essere percepita come una rude scorciatoia. Se non si va alle urne, se non ci si può sbarazzare degli incompetenti, poco importa, tanto il popolo esprime il proprio volere per mano dei suoi giudici, irrogando pene mediatiche, se possibile, molto più efficaci e disonorevoli del carcere.

Ecco che ai potenti urge avere un salvacondotto che la mera legittimazione democratica, il solo voto apposto sulle schede non può più dare. L’indagine penale si atteggia – e non per colpa delle toghe il più delle volte – come la nuova urna, come il nuovo registro discorsivo che – senza fastidiose scadenze prefissate e senza che sia convocato alcun comizio elettorale – esprime e concretizza, ora e subito, la sfiducia popolare, la sua reale e immediata volontà, purtroppo irretita dai tempi troppo lunghi e ormai insufficienti dei cicli di elezione. Ciò che conta è che trovi sfogo l’urgenza del risentimento e la brama del contrappasso. Ecco che si profila il pericolo di costruire una oclocrazia mediatica in cui la potestà politica, democraticamente scelta, viene continuamente messa all’angolo dalla propria paura di indagini e perquisizioni e finisce per abdicare alle proprie prerogative a vantaggio di un incontrollato sacerdozio delle manette che possa dispensarle protezione.

Così dopo circa 30 anni all’immunità parlamentare, allo scudo processuale imposto dalla Costituzione del 1947 e piegato dai colpi di Tangentopoli, si viene a sostituire lo schermo della sottomissione. La captatio benevolentiae della casta egemone per mitigare il pericolo delle inchieste. Anche quando si discute della salute dei cittadini in Lombardia o della irrinunciabile metamorfosi della sanità nel malato pianeta di Calabria. Occhio, però, che «non si porta la libertà sulla punta delle baionette». Parole celebrate ovunque, ma foriere di inganni, non fosse altro perché a pronunciarle è stato Maximilien Robespierre che ai fucili, da uomo di legge, preferiva la ghigliottina.