Il ritratto
Francesco Cossiga, un cattolico liberale in un partito di affaristi
Mi rispose: «No, ma venga domattina alle sette a fare colazione al Quirinale». Andai e trovai la crème de la crème della sinistra italiana: Andrea Barbato, Sandro Curzi, Valentino Parlato e mezza redazione de il manifesto con qualche scampolo de l’Unità. Tutta gente intelligentissima, un po’ anarchica ed eretica impegnata fra cappuccini, cornetti e uova strapazzate con cui Cossiga aveva una familiarità molto giocosa. Quello sì, che sembrava il Tè del cappellaio matto. Ma allora erano tutti matti, o così sembrava. Lo stesso Cossiga che veniva scudisciato sulla carta stampata, era il beniamino di un bel gruppo di intelligentissimi e spiritosissimi pensatori e giornalisti. Non c’era Eugenio Scalfari, che era in quel momento uno dei suoi principali avversari e questo faceva soffrire molto Cossiga perché per anni – mi diceva – era stato a pranzo da Eugenio una volta alla settimana. Eugenio stesso mi aveva raccontato di aver lui stesso suggerito a De Mita il nome di Cossiga per succedere come presidente del Senato ad Amintore Fanfani che si era giocato la poltrona pur di fare un governicchio estivo.
Poi, dopo mille premesse, promesse ed emozioni, venne il momento della prima intervista ed era allora un vero scoop, perché tutti speravano di poterlo intervistare. Mi spiegò il senso della sua azione, che era la semplice presa d’atto di quel che stava per accadere: «L’Italia, con la fine della Guerra Fredda – disse – ha perso il suo potere di ricatto sugli americani e gli altri alleati. Non contiamo più niente e coloro che ci hanno dovuto sopportare con tutti i nostri tradimenti, ricatti, ruberie e arroganze, stanno per presentarci il conto e sarà salatissimo. Sto cercando di fare capire ai democristiani e ai comunisti (che considerava come i carabinieri, dei suoi parenti, vista la cuginanza con Enrico Berlinguer il quale gli rispondeva che «con i parenti si mangia l’agnello a Pasqua» e lo mise in stato d’accusa) che nel nuovo mondo tutte le regole sono cambiate ed è mio compito traghettare l’Italia nella nuova realtà storica».
Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Ma la Dc di Ciriaco De Mita, e non solo, non aveva alcuna intenzione di farsi rieducare da Cossiga, il quale vantava – con parecchia millanteria – una frequentazione nelle altissime sfere dell’intelligence mondiale delle segrete ruote che governavano il pianeta. Aveva un caratteraccio, questo è indubbio. Era certamente un po’ paranoico (la paranoia consiste nel vedere complotti e veleni, ma è una sindrome utile se si vive in un’epoca di complotti e veleni), era soggetto ad accessi di collera che erano però più di natura sarda che psichiatrica: il codice cavalleresco dei gentiluomini sardi impone delle furie di facciata che soltanto i veri sardi possono capire.
Ed è una furia fredda, che non fa salire la pressione, anche se siamo nell’antropologia e nel nazionalismo sardo, perché Cossiga era anche un nazionalista sardo più o meno come lo sono i corsi. Fu così che le mie interviste con il presidente della Repubblica, da formali e in pompa magna si fecero frequenti e convulse. Decise di darmi del tu e di chiamarmi “A Guzzà”. Recalcitravo alla richiesta di fare altrettanto ma non fu contento finché non passai a un improbabile “A Francé”. Si palpava benissimo il desiderio della nomenklatura italiana di levarselo dalle scatole e rimuoverlo con acrobazie procedurali accompagnate da comitati di psichiatri che avrebbero dovuto proclamare un reggente finché il Parlamento non avesse eletto un successore.
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