Il Novecento secondo una consolidata tradizione storica è iniziato con la Prima guerra mondiale. Questa ha informato di sé buona parte del secolo. Potremmo azzardare l’ipotesi che il Ventunesimo secolo inizi con la prima pandemia globale. I prodromi della nuova configurazione sociale si andavano affastellando attraverso fenomeni, inattesi e allo stesso tempo prevedibili, come l’attentato alle Torri Gemelle. Gli eventi sono tali quando gettano una nuova luce sul futuro, aprendolo ad altri regimi di operabilità rispetto al passato. Con l’evento pandemia stiamo vivendo l’accelerazione delle dinamiche sociali ed economiche neoliberali.

Si apre al contempo la possibilità di riattivare una critica all’esistente, facendo spazio a ciò che non è Inferno come scritto giustamente nelle sette tesi (Il Manifesto della Generazione di mezzo: sette tesi per il nostro futuro, di D. Danti, N. Pecorini, F. Tomasello, Il Riformista, del 16 ottobre 2020). Scarterei propensioni apocalittiche, anche se le paure collettive vanno prese in seria considerazione.

Giovani generazioni
A me pare che in piena pandemia, il nocciolo della questione pervada le tesi e sia posto in esergo a esse, ovvero: le giovani generazioni. Perché in questa situazione abbiamo visto erodere i labili fili di una relazione intergenerazionale, picconata da una classe dirigente e da un pensiero egemonico, in prevalenza caucasico, maschile e di mezza età, Istituto Superiore di Sanità compreso. A suon di paternalismo, dal premier fino ai delatori alle finestre, a dir che i giovani sono un problema palesandosi alla vista soltanto come untori. Diventando invisibili nei discorsi mainstream su scuola, università eppure sono loro che combattono la crisi climatica e le disuguaglianze sociali. In una commovente lettera al Corriere fiorentino del 20 ottobre, Camilla, 17 anni e studentessa del liceo Michelangelo di Firenze, ha scritto della sfiducia verso uno Stato che la priva dell’età più bella.

L’attesa per un tampone, la burocrazia, gli autobus pieni, lo sport che non può fare, chiudendo il suo scritto così: «lo Stato mi ha delusa, in otto mesi di pandemia non è riuscito a organizzarsi e a rimetterci sono io, siamo noi, tutti gli italiani che, impotenti davanti alla situazione, si limitano ad adempiere a testa bassa ai doveri loro imposti dalle norme anti Covid. Più passo il tempo in questo Paese in balia della sorte e più sono convinta di volermene andare. Avete sulla coscienza me e il mio futuro». Tralascio i commenti e gli attacchi a questo scritto da parte degli adulti. Nessuno discute della didattica, di come organizzare i servizi, cambiare le abitudini. Sembrano spariti luoghi di formazione e relazione che permettano ai giovani di uscire da uno stato di minorità, diceva Kant, nel quale sono gli altri a decidere per loro. Non sarà un caso che, da quando sono scomparsi quasi del tutto spazi di aggregazione come i collettivi, sia calato il silenzio sulla condizione studentesca. Ragazzi e ragazze, working poor che attraversano le piazze di protesta contro i Dpcm. La nostra società vecchia e rancorosa ha creato un abisso generazionale, i giovani sono i nemici o gli esclusi dal discorso e dalle politiche pubbliche a seconda dei momenti.

Ecologia, politica ed ecosistemi
Le piante, sostiene il neurobiologo Stefano Mancuso, potrebbero insegnarci molto perché rappresentano l’85% della vita, mentre gli animali sono solo circa lo 0,3%. La loro caratteristica è quella di sopravvivere soltanto all’interno di ecosistemi. Con un’evoluzione basata sul mutuo appoggio, la simbiosi e la comunità, e un’organizzazione orizzontale, diffusa e decentralizzata, come quella di internet. Se spostiamo lo sguardo sulla relazione con altri esseri viventi, ci accorgiamo che modello di sviluppo, industria alimentare e specie animale, vedono compromessa la loro dimensione ecosistemica, con il conseguente salto di specie del virus e il concatenarsi di crisi sanitaria, economica e sociale. Mentre la crisi climatica rende evidente la relazione di reciprocità tra specie viventi e ambienti di vita. Gli ecosistemi sono studiati tanto dalle scienze naturali quanto dal management d’impresa, eppure in politica su questi temi si naviga a vista. È necessario sostenere e implementare un paradigma economico circolare e generativo, un ecosistema realizzabile grazie alle nuove tecnologie. Da questo punto di vista, in Europa l’Italia è al primo posto, nel mondo è sesta, con aziende all’avanguardia, ma nella percezione diffusa non sembra essere così.

Ostacoli
Abbiamo la necessità di superare quelli che Gastone Bachelard definiva ostacoli epistemologici alla comprensione dei fenomeni, per avere una presa sul reale. Facciamo due esempi: pensiamo alla crisi climatica e al conseguente rischio estinzione, che secondo gli scienziati si palesa per la prima volta nella storia dell’umanità. Stiamo parlando dei figli dei nostri figli, che cominceranno a pagare seriamente le conseguenze del cambiamento climatico entro trent’anni a partire da oggi. Non ho detto trecento. Perché in estate i Paesi europei si sono scordati della pandemia e del suo prevedibile ritorno? Le rimozioni collettive oltre a essere un meccanismo di autodifesa per l’equilibrio psichico delle popolazioni, servono a mantenere lo status quo, nella difesa di uno stile di vita privilegiato che non vogliamo – consapevolmente – mettere in discussione. Il problema però riguarda anche la dimensione di scala dei fenomeni. Il virus è invisibile e agisce con uno sfasamento temporale di quattordici giorni, in una logica del tutto contro intuitiva per la nostra percezione. Il cambiamento climatico avviene su una scala ancora più grande. La povertà diffusa di conoscenze, concorre al nutrimento di paure e rimozioni collettive. Temi da maneggiare con cura ma necessari per attivare un’efficace battaglia politico culturale di prospettiva, rispondendo alle nuove domande di senso.

La cultura digitale, le dinamiche comunicative e il sapere informatico, sono necessari per capire le mutazioni antropologiche. Un deficit di cultura politica della sinistra italiana che viene da lontano, databile almeno dalla fine degli anni Settanta. Mentre negli stessi anni in America, lo studioso Raymond Williams, sulla scia di Gramsci, leggeva le mutazioni antropologiche della società, attraverso i prodotti culturali e i palinsesti della tv via cavo. Oggi il funzionamento elettronico delle nostre società permette una velocissima mobilità di merci, persone e anche di virus. ll digitale è allo stesso tempo infrastruttura logistica ed economica. Ed è un habitat, in quanto tale luogo di relazione, terreno di destrutturazione e costruzione dei legami sociali. Quella che negli anni Novanta veniva descritta come una dicotomia tra mondo virtuale e mondo reale, oggi si presenta come realtà aumentata, esperienza simultanea di diversi ambienti. Ormai siamo OnLife, secondo la definizione del filosofo Luciano Floridi, assunta nei documenti dalla Commissione Europea. Ce lo hanno ricordato tra gli altri le Sardine che, con parole semplici e dirette, dal digitale si sono fatte piazza attraverso i propri corpi. La prima cosa da fare è lasciare spazio ai giovani, imparare da loro, tendergli la mano e spingerli avanti.