“Sette tesi per il nostro futuro dai figli della grande sconfitta”, è il titolo di una interessante riflessione di Dario Danti, Niccolò Pecorini e Federico Tomasello, su Il Riformista del 16/10/20. Il riferimento è a quella generazione di mezzo, che si è trovata alle spalle le “certezze cadute” degli anni Settanta, e, davanti, una silenziosa ritirata fatta di paura, rabbia, e dolore per una sconfitta di cui non poteva sentire alcuna colpa. Dall’angolo in cui sono stati messi, gli “orfani di una disperata ricerca di senso” sembra tuttavia che abbiano oggi la possibilità di cogliere, in prospettiva, segnali di ripresa in un orizzonte più ampio e più ambizioso del passato: una “nuova antropologia politica”, il progetto di una cittadinanza globale. Tra tutte le perdite, diceva Rossana Rossanda nel dialogo con Manuela Fraire– quella della politica è una delle più tragiche: «Per me è insensato il mondo in cui viviamo e mi pare sorprendente che ci si rassegni ad esso. È senza senso vivere come si vive: più deprivati di potere che mai sul nostro destino, smarriti di fronte a noi stessi. Si patisce e si subisce» (R. Rossanda e Manuela Fraire, La perdita, a cura di Lea Melandri, Bollati Boringhieri 2008).

Tenuto conto che lo smarrimento è più forte per chi si è visto “recintato” dentro la propria biografia, impedito dal pudore a raccontare il crollo, a fare memoria, si può dire che nell’arco degli ultimi quarant’anni si è venuta consumando per molti, indipendentemente dall’appartenenza generazionale, una visione di futuro che era parsa ai movimenti non autoritari, nati dal Sessantotto, a portata di mano.
Con “soggetti imprevisti”, come i giovani e le donne, avevano fatto allora ingresso nella polis le categorie del “desiderio” e della “felicità”, guardate con sospetto perché considerate poco materialiste. La messa in discussione di quella che per secoli era parsa la “tragica necessità del dualismo” (Elvio Fachinelli) apriva opportunità inedite di nessi da scoprire tra vita e politica, biologia e storia, individuo e società. Esigenze radicali, emerse in un particolare contesto storico, quale era quello degli anni ‘60 e ‘70, si rivelavano come “il possibile attualmente impossibile” e come tali destinate a ripresentarsi in momenti successivi. Mai, come allora, si è interrogata la politica partendo da tutto ciò che aveva confinato nella natura e nel vissuto dei singoli, spingendola fin dentro la materia segreta che sta ai confini della ragione e costringendola al medesimo tempo a riscoprire dentro il proprio percorso storico la complessità di un ordine che è insieme sessuale ed economico, individuale e collettivo.

Difficile, per chi come me ha spiato in ogni comparsa di movimenti, dalla scuola al femminismo alla precarietà lavorativa, la riattualizzazione di istanze radicali di cambiamento, non trovare somiglianze in quelle “sette tesi” descritte dagli autori dell’articolo come il tempo a venire di “una lotta epocale tra la nuda vita e la libertà”. Dalle manifestazioni che hanno invaso le città americane contro le discriminazioni razziali, per diffondersi rapidamente in tante altre parti del mondo, allo sciopero di una giovanissima generazione contro il disastro climatico divenuto immediatamente globale, per non parlare delle rete femminista Non Una Di Meno che conserva da ormai quattro anni un carattere transnazionale, verrebbe da dire che è solo l’orizzonte ad essersi allargato in conformità con l’espandersi delle potenze economiche, finanziarie e tecnologiche. Ma nella perdita dei confini, paradossalmente sono i corpi, le storie e le culture differenti di cui portano i segni a prendere un protagonismo inaspettato, sono le migrazioni a prospettare un futuro in cui siano riconosciute eguaglianze sostanziali, a dare forma a una “utopia della libera mobilità”.

Se la costruzione simbolica di un nemico ha fatto effettivamente, per gli ultimi quarant’anni della storia italiana, da paravento alla ricerca di una identità smarrita, come si legge nell’articolo, oggi è proprio lo “straniero” , il “diverso”, – sia esso il migrante, la donna, la persona di altre etnie -a dare corpo a una cittadinanza che ha i tratti di un’umanità ritrovata in ciò che da sempre l’accomuna. Lo svelamento del dominio in tutte le sue forme- sessismo, classismo, colonialismo – anziché lasciarsi dietro un campo sterminato di vittime si può dire che ha mostrato la potenza generativa dei vinti, il patrimonio di cultura, legato alle esperienze più universali dell’umano, sedimentato nella memoria dei loro corpi o lasciato crescere nell’ombra della grande storia, come un residuo insignificante. Tra le tante differenze che oggi cercano di convivere secondo principi di uguaglianza, quella che ha imposto per secoli il suo privilegio e la sua legge a metà del genere umano, ancora -si legge nell’articolo – “resta sullo sfondo”.

In mezzo alle voci che prendono parola sulle piazze di tante città, squarciando il velo dell’ignoranza, dell’indifferenza o dell’omertà, colpisce “il silenzio tombale degli uomini” su quello che è ormai un dato evidente: lo scarto che si è venuto a creare tra il modello di una virilità violenta, predatoria e comportamenti maschili modificati da nuove consapevolezze. Che sia una generazione di uomini cresciuta nel corso di una faticosa ricerca di nuove forme di intimità, prodotta dal sovvertimento dei ruoli tradizionali ad opera del femminismo, a prendere oggi parola anche su questo tema, fa sperare che sull’onda lunga dei movimenti che attraversano il mondo, sia pure in modo ancora carsico e frammentato, si riconosca al rapporto di potere tra i sessi il peso che ha avuto storicamente nella proliferazione di orrori, sofferenze, ingiustizie di ogni sorta.