Il commento
Ora basta incolpare le donne se gli uomini sono violenti
Nella rassegna stampa di lunedì 12 ottobre 2020 è stato dato un insolito rilievo a quella che viene ormai definita “questione di genere”, o più semplicemente il rapporto tra uomini e donne, in ciò che permane di una storia millenaria rispetto ai cambiamenti a cui stiamo assistendo oggi. A muovere l’interesse sono stati in particolare due articoli: uno di Linda Laura Sabbadini su Repubblica e l’altro di Simonetta Sciandivasci su Il Foglio. Colpisce, e per certi aspetti disorienta, il fatto che si parli dello stesso problema con visioni così diverse tra loro da non lasciare alcuno spazio a quello che possono avere in comune. La sessualità e la politica, il cittadino e la persona, la ragione e i sentimenti, la coscienza e l’inconscio, nonostante che i confini della tradizionale separazione tra privato e pubblico abbiano subito una ulteriore accelerazione con la pandemia, continuano a riproporsi anche là dove i protagonisti sono gli stessi, intrecciati e confusi da una “guerra” che attraversa intere le loro vite, corpo e pensiero.
Per Linda Laura Sabbadini si tratterebbe di “colmare l’enorme ritardo” del nostro Paese a riconoscere alle donne “uguaglianza” nell’occupazione come “nella redistribuzione delle ore di lavoro familiare nella coppia e nella società tramite i servizi”: sviluppo delle infrastrutture sociali, nidi, tempo pieno, welfare di prossimità, strutture sanitarie territoriali. Le donne dovrebbero essere viste come “un grande soggetto di cambiamento”, su cui anche all’economia conviene investire. Si parla di misure contro gli stereotipi di genere, ma la prospettiva è ancora quella del lavoro e dell’indipendenza economica. Nessun accenno a quegli interni domestici e a quelle strade dove alla libertà delle donne, faticosamente conquistata, le risposte maschili sono femminicidi, maltrattamenti, persecuzione e stupri.
Dovrebbe far piacere perciò leggere nell’articolo di Simonetta Sciandivasci su Il Foglio un’ampia analisi riguardo alla messa in discussione del patriarcato, dei suoi poteri, valori, linguaggi, e alla “crisi dei maschi”, se la finalità ultima del discorso non fosse la colpevolizzazione delle donne. Sul ribaltamento delle parti tra la vittima e l’aggressore, come ricerca di consenso, hanno contato sempre le guerre e quella tra i sessi è senz’altro la più intrigante, perché avviene nella solitudine delle case, delle relazioni di coppia, o nell’indifferenza con cui generalmente si assiste agli stupri nelle strade. Dopo aver detto che al centro del dibattito pubblico è arrivata la questione dei diritti delle donne e della “strutturalità del patriarcato”, Sciandivasci si affretta ad aggiungere che tale “contezza” viene comunicata con un “linguaggio impreciso e inadeguato”. Confondendo teorie e pratiche del femminismo con l’uso -questo sì “impreciso e semplificato” -del “politicamente corretto”, scrive: “Dal 2017 in poi chi ha voluto semplificare questa serie di trasformazioni, idee, rivolte o intossicazioni dello sguardo, ha detto: essere maschio è diventata una colpa (…) Non ci si è accorti che ai margini di questa narrazione corrente, di questa lotta per la rielaborazione di un nuovo ordine mondiale, accadeva qualcosa di più cupo e certamente connesso con quel senso di abbandono e incertezza in cui si sono trovati a sprofondare i nuovi deboli, che sono i forti per procura”.
Al fondo dell’esplosione di violenza maschile – si fanno gli esempi delle stragi a Toronto e a New York ad opera di giovani studenti -e di un fenomeno come quello degli “incel”, celibi involontari, ci sarebbero i “postumi” della rivoluzione sessuale degli anni ‘70, intrecciata con il capitalismo e, soprattutto, la colpevolizzazione della virilità legata alle battaglie del femminismo. Ad alimentare pulsioni distruttive – rancore, vendetta, aggressività, rifiuto – sarebbe la sofferenza che produce negli uomini doversi adeguare ai comportamenti che oggi le donne vogliono da loro, sentito come “sopruso” e “ridicolizzazione”. Si tratta, scrive Sciandivasci, di un processo “simile a quello a cui assistemmo dopo l’Undici settembre quando moltissimi ragazzi occidentali si convertirono all’Islam e fecero dell’jihad un progetto di vita, della loro vita, perché cercavano un senso, uno scopo, perché la realtà li respingeva”.
Basterebbe questo accostamento, più di tanti ragionamenti, a far concludere che sono le donne, per aver indebolito o reso superfluo il potere maschile, a portare la responsabilità della ritorsione violenta che hanno scatenato nell’altro sesso. Se questa lettura della crisi del maschio, che mescola ambiguamente analisi e condivisione di comportamenti maschili misogini e revanchisti, non fosse così diffusa, non meriterebbe particolare attenzione. Che la “pressione sociale” vada oggi , almeno verbalmente, nella direzione opposta a quella che ha sempre inneggiato alla “virilità”, che si pensi di prevenire o arginare l’aggressività maschile con norme di contenimento e punizione, non viene dal femminismo ma da una cultura patriarcale evidentemente indebolita, che cerca ripari facili, immediati, per non dover indagare le ragioni profonde di un dominio che attraversa le istituzioni pubbliche come le esperienze più intime dell’umano.
A essere, volutamente o meno, travisate sono le intuizioni originali del movimento delle donne, l’idea che “femminilità” e “virilità”, costruzioni del sesso vincente, hanno rappresentato modelli coercitivi per entrambi. Cancellata è anche la nascita ormai più che trentennale di una rete di uomini, gruppi e associazioni, che hanno cominciato a dire che la violenza contro le donne “li riguarda”, e che sono gli uomini stessi ad aver bisogno del cambiamento o meglio ancora desiderarlo come liberazione da un destino sociale già scritto.
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