Le operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza sono entrate in una nuova fase fatta di approfondimento dei raid all’interno di Gaza city ma anche di un allargamento del raggio di azione in altre zone.
Per quanto riguarda il fronte cittadino, quello della battaglia casa per casa nella roccaforte di Hamas, le forze armate di Israele proseguono i raid all’interno del complesso dell’ospedale al Shifa, vicino al quale sono stati rivenuti anche i resti di Noa Marciano, la soldatessa rapita il 7 ottobre e la cui morte era stata annunciata proprio da Hamas. All’interno della struttura, le Israel defense forces hanno individuato l’imbocco di un tunnel: ulteriore prova dell’utilizzo del nosocomio come copertura per occultare la rete sotterranea degli islamisti. Lì dove secondo l’intelligence potrebbero essere stati nascosti degli ostaggi o dove potrebbe essersi rifugiata una parte della dirigenza di Hamas a Gaza. Mentre le Tsahal continuano a combattere nel centro abitato – una battaglia che secondo le autorità locali sarebbe costata la vita a 12mila palestinesi, tra cui migliaia di bambini – i comandi israeliani iniziano a guardare anche verso sud.

A confermarlo, è stato il capo di stato maggiore dell’esercito di Israele, Herzi Halevi, che ha spiegato che le truppe dello Stato ebraico sono “vicine allo smantellamento del sistema militare” di Hamas nel nord della Striscia ma che continueranno anche in altre aree. La dichiarazione del capo militare israeliano si unisce ad altri elementi sopraggiunti di recente. Ieri sera il portavoce dell’esercito, Daniel Hagari, ha confermato che le Idf sono determinate a colpire Hamas anche nel sud della Striscia. In precedenza, le forze israeliane avevano lanciato volantini anche in quell’area per chiedere alla popolazione di evacuare in vista di nuovi raid. Mentre negli ultimi giorni sono stati segnalati attacchi aerei sempre nella parte meridionale dell’exclave palestinese.
La decisione di Israele di ampliare le proprie attività è coerente con il suo duplice obiettivo militare: smantellare Hamas e individuare gli ostaggi rapiti il 7 ottobre. Non mancano tuttavia le perplessità di molti osservatori sui rischi di questo allargamento delle operazioni in aree dove secondo le Nazioni Unite sono già presenti più di un milione e mezzo di sfollati provenienti dal nord.

Questo scenario farebbe escludere l’eventualità di un’avanzata via terra sul modello di quanto avvenuto in queste settimane nella parte settentrionale della regione, ma questo certo non esclude né l’incisività dei bombardamenti aerei, con le potenziali vittime civili coinvolte nelle esplosioni, né riduce la portata della crisi umanitaria. Proprio in rapporto a queste due grandi tematiche, centrali per gli Stati Uniti e i maggiori alleati di Israele, è importante segnalare alcune importanti evoluzioni all’interno del governo dello Stato ebraico. Ieri, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato alla Cbs sottolineando che “ogni vittima civile è una tragedia” e che le forze armate di Israele stanno facendo il possibile “affinché i civili siano lontano dai pericoli”. Il premier ha più volte evidenziato la volontà di concludere l’operazione militare all’interno dello Striscia riducendo al minimo le vittime collaterali, ma ha anche ammesso l’esistenza di gravi difficoltà nel raggiungere il risultato. “Purtroppo non ci stiamo riuscendo” ha confessato Bibi.

Dichiarazioni che servono a mostrare anche un certo allineamento con l’amministrazione Usa, come quelle giunte in serata sul non volere mantenere truppe israeliane nella Striscia di Gaza dopo la guerra. Insieme a queste frasi, è arrivato poi l’annuncio sull’ok da parte dell’esecutivo a inviare due camion di carburante al giorno a Gaza. Una scelta frutto anche della pressione di Washington. Il presidente del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, ha giustificato la decisione con una motivazione di carattere sanitario, ricordando che l’assenza di carburante può provocare l’esplosione di malattie e l’aggravamento di una crisi umanitaria che provocherebbe ancora più pressione da parte della comunità internazionale. Ma questa spiegazione non sembra avere scalfito la contrarietà di alcuni ministri, in particolare di Miri Regev e dei due rappresentanti dell’estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

Per l’ala più radicale della politica israeliana, la concessione di carburante a Gaza viene identificato come un segnale di debolezza nei confronti di Hamas. E questo nonostante i richiami giunti non solo da parte statunitense ma anche da parte dell’Unione europea, con l’Alto rappresentante Josep Borrell che ha ricordato proprio durante il suo viaggio in Israele il bisogno da parte dei rifugiati nella Striscia di “cibo, acqua, carburante e protezione”. Non si ferma, intanto, la ricerca degli ostaggi, né i negoziati per ottenerne la liberazione. Ieri le Brigate Al Qassam hanno pubblicato un video che mostrava Aryeh Zalmanovitch, un anziano rapito nel kibbutz di Nir Oz il 7 ottobre. I terroristi hanno poi fatto circolare la notizia della sua morte per un attacco di panico durante un bombardamento. Questa orrenda arma psicologica è utilizzata mentre continua il difficile negoziato mediato da Egitto e Qatar e su cui ieri è arrivata una dichiarazione dello stesso Hanegbi: nessun cessate il fuoco, pure di brevissima durata, senza il rilascio di un numero molto grande di ostaggi. Questione che secondo alcuni media sarebbe stata sollevata a Joe Biden da Netanyahu, che avrebbe chiesto di premere su Doha per aumentare il numero dei rapiti oggetto della trattativa con Hamas. Mentre continuano a piovere razzi dal Libano, resta alta l’attenzione sulla Cisgiordania. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha chiesto al generale Benny Gantz di fermare la violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi. Nel frattempo, le Idf hanno compiuto un nuovo raid nel campo di Jenin mentre due uomini hanno sparato ai militari israeliani a Hebron.