«Non siamo più in grado di gestire dolore e angoscia, rischiamo di diventare cinici. Bisogna prestare attenzione alla comunicazione dei media, troppo semplicistica e banale e che non ci rassicura affatto, anzi». Parla lo psicologo e docente universitario Oscar Nicolaus.

Professore, dopo due anni di pandemia siamo piombati in una nuova emergenza: una guerra che ha sconvolto il mondo. Da accademico e da esperto a contatto con molti pazienti, com’è messa la nostra mente di fronte a tutte queste prove da superare?
«Credo che se il Covid ha messo a dura prova la capacità di resistere mentalmente, questa guerra unita alla pandemia amplifica ancora di più quello che potremmo definire un sentimento di angoscia e di morte. Bisogna tener conto che la nostra società, le società occidentali in generale, sono poco attrezzate a gestire il dolore. Il dolore è diventato quasi un tabù, basta vedere come si facevano una volta i funerali e come invece li facciamo oggi. In America ma anche qui durano cinque minuti, forse al Sud un po’ di più ma resta che l’elaborazione del dolore è diventata un optional e questo rende ancora più forte e preoccupante questa dimensione che ho definito di angoscia e di morte».

Lei dice che il dolore è diventato un tabù, non è che invece ci siamo abituati al dolore, a vedere immagini strazianti che arrivano dall’Ucraina e in generale un po’ a tutto? Inizialmente anche il Covid e il lockdown ci sembravano situazioni non solo nuove, ma anche insostenibili e invece alla fine ci siamo abituati anche a quello.…
«I rischi, come in tutti i fenomeni complessi che ci riguardano, chiaramente ci sono. C’è il rischio di un’assuefazione che diventa una forma di difesa. Come succede a chi è impegnato sempre con la vita e con la morte delle persone, alla fine si diventa cinici. È una forma di difesa da un dolore, e questo è il vero punto, per il quale non abbiamo strumenti o meglio abbiamo meno strumenti rispetto al passato. Oggi facciamo più fatica a contenerlo e a elaborarlo, anche sul piano sociale. Non è solo un problema mentale, ovviamente, perché la guerra, le distruzioni e la crisi sono problemi concreti. E poi bisognerebbe anche chiedersi come siamo arrivati a tutto ciò e se anche l’Occidente dovrebbe e potrebbe comportarsi in maniera diversa».

Rispetto al passato cosa è cambiato nella gestione del dolore e dell’angoscia?
«Il dolore è stato in qualche modo “cancellato” e uso un’espressione forte. Mi spiego, c’è una sorta di negazione del dolore che porta a considerare superflui certi riti (e ritorniamo ai funerali di una volta). Oggi è un tabù parlare della capacità di soffrire e questo ci ha privato di strumenti mentali per affrontarlo. Durante la pandemia, per esempio, ci siamo accorti di essere impreparati di fronte a tante cose. A partire dalla considerazione che avevamo della scienza. Pensavamo che la scienza fosse un punto di vista perfetto, invece la scienza è un cantiere aperto e non un dogma, e questo ha confuso ulteriormente chi partiva dall’idea di scienza come qualcosa di infallibile. E chiaramente la comunicazione, anzi la mala comunicazione, ha avuto il suo peso in questa confusione generale. Un paziente recentemente mi ha detto: se sto male, vedo che gli altri si allontanano e hanno quasi paura del mio dolore. Questa frase dice bene quello che ci sta succedendo: siamo spaventati dal dolore altrui».

Questa paura del dolore, rischia di farci diventare cinici e freddi di fronte ai drammi di un virus o di una guerra?
«Sì, o cinici o sempre più angosciati perché se il dolore si condivide si sopporta meglio».

Poco fa abbiamo parlato di una cattiva comunicazione dei media durante il Covid, crede che ora con la guerra in Ucraina stia avvenendo la medesima cosa?
«Mi sembra che ci sia da una parte un giusto appello alla solidarietà verso un popolo invaso e massacrato dalla politica imperialistica di Putin, dall’altra parte bisognerebbe anche rendersi conto e ragionare su come siamo arrivati a questo, come abbiamo permesso che tutto ciò accadesse. Forse qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi, e questo lo dico non per depotenziare la critica alla politica guerrafondaia di Putin. Poi, sono passati dieci giorni dall’inizio della guerra, non ho ancora elementi sufficienti per dire se la comunicazione sarà sbagliata, anche questa volta, oppure no».

Sono passati “solo” dieci giorni dall’inizio della guerra ma c’è già stata, da parte di alcuni, una corsa all’acquisto dei bunker mentre molti stanno facendo scorte di cibo. È già piscosi?
«Se davvero c’è un’invasione dei supermercati e la corsa all’acquisto dei bunker è certamente il sintomo di un’angoscia, di una psicosi ancora non a livelli preoccupanti ma sicuramente è l’inizio».

Crede che dopo questi due anni e il prossimo che ci apprestiamo a vivere nel segno di guerre e crisi, siamo sempre più dipendenti dalla tv e dai social, a discapito delle relazioni umane?
«Il Covid ci ha chiuso dentro casa e inevitabilmente ci siamo legati a quegli strumenti che ci raccontavano cosa accadeva fuori. Però, c’è stata una reazione a un certo punto e la gente ha deciso di selezionare le notizie. Per esempio quel bollettino con il numero dei contagi e dei morti diffuso in maniera ossessiva non serviva a nulla, generava solo confusione ed è sicuramente un esempio della cattiva comunicazione. Sarebbe stato più utile capire la reazione psicologica dei cittadini a quelle notizie e dare informazioni utili a capire la pandemia e i punti di vista, a volte contraddittori, degli esperti».

Quindi, troppi errori nella comunicazione?
«Sì. Dovremmo sicuramente capire che gli appelli ottimistici, un po’ banali e fin troppo semplici, alla fine non ottengono il risultato che vogliono anzi peggiorano la situazione. E quindi dobbiamo mostrare i rischi e i pericoli e fare appello alla solidarietà non solo con il popolo ucraino ma anche tra di noi. Basta con questi appelli: andrà tutto bene. Depotenziano l’apparato psichico umano. Serve l’incoraggiamento ma non i consigli idioti. Si ricorda la frase di De Filippo “ha da passà ‘a nuttata”?. Ecco, deve passare ma dipende anche cosa facciamo durante quella nottata. E questo il senso di una comunicazione più seria, quindi meno slogan semplicistici e più messaggi che tengano conto della complessità della natura umana, che ha sempre a che fare con l’improbabile e l’imprevisto».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.