Chi vuole davvero la tregua?
Guerra in Ucraina, l’incontro al buio a Istanbul: Zelensky “solo se c’è Putin” che pensa alla stanza dei bottoni. Erdoğan e Trump pronti a lavarsi le mani
Il presidente ucraino mette alle strette il Cremlino, non ha senso trattare senza lo zar (che deciderà all’ultimo). Win-win per Turchia e Usa: in caso di accordo si prenderanno i meriti, se salta tutto sarà colpa di Kyiv e Mosca

Così com’è incerto il vertice di Istanbul di domani, altrettanto lo sono le decisioni che ne potrebbero emergere. Non è scontato infatti che Zelensky e Putin si incontrino, alla presenza di Trump – anche lui in forse – e ospiti di Erdoğan. E per gli Usa ci sarà il tycoon, oltre al segretario di Stato Marco Rubio? Nelle stesse nebbie naviga il risultato del summit. Chi ci dice che un’eventuale tregua potrebbe reggere? E quale processo di pace potrebbe innescare? Unico fatto sicuro è che si è giunti a una situazione win-win. Zelensky, Putin, Trump e lo stesso Erdoğan hanno tutti delle giustificazioni attendibili affinché l’incontro si faccia, oppure no. Questo ha innescato quelle attività di negoziazione, carotaggio e provocazione che sono classiche in ogni fase pre-vertice. La diplomazia, con le sue vecchie ma buone pratiche, è tornata protagonista. Dopo quattro mesi di montagne russe.
“Vengo se c’è anche Putin”
L’aut-aut di Zelensky è ovvio. «Vengo se c’è anche Putin», ha detto. Per il presidente ucraino sarebbe inutile confrontarsi con un emissario di Mosca quando poi è un uomo solo che decide. Il suo vantaggio contrattuale è dato dai volenterosi, che domenica sono andati a trovarlo a Kyiv e, soltanto ieri, per bocca del cancelliere Merz, hanno ricordato che, in ogni caso, la Russia è sotto sanzioni. Un vuoto nell’acqua a Istanbul innescherebbe un loro giro di vite. D’altra parte, Zelensky è anche messo alle strette dalla presenza o meno dello zar, la cui conferma arriverà last minute. Il leader ucraino non può permettersi di disertare un appuntamento dove c’è non solo il suo nemico, ma anche Trump. Il cui atteggiamento verso Kyiv è complesso da classificare. Lo sappiamo. Un mancato incontro con Zelensky lo prenderebbe come un’offesa personale.
Putin, Yalta e la stanza dei bottoni
Meno sofisticata è la posizione di Putin, che rispetta alla lettera il copione di tutti i suoi predecessori al Cremlino. Yalta fu fatta a Yalta perché Stalin non aveva la minima intenzione di allontanarsi da casa. La paranoia di lasciare incustodita la stanza dei bottoni e l’arroganza di tenere in stand-by l’interlocutore vanno a comporre un cocktail respingente. È così che Putin pretende di fare da deus ex machina. Mandare un suo uomo vorrebbe dire disconoscere il summit – uno sgarbo per Trump ed Erdoğan – e così confermare che alla Russia la pace non conviene. Almeno dalla prospettiva del Cremlino. Le ultime analisi dello Stockholm Institute of Transition Economics (Site) parlano di una crisi delle banche russe alle porte. Pericolo che la propaganda del regime saprà bene come minimizzare.
Trump ed Erdoğan non hanno niente da perdere
E poi c’è Trump. Stanco dei negoziati infruttuosi in Ucraina e Medio Oriente, ha voltato faccia a Putin e Netanyahu. Che si pensava fossero i suoi migliori amici. Questo per far capire quanto ci si possa fidare di lui. The Donald vuole chiudere in fretta entrambe le partite perché deve concentrarsi sul suo vero nemico, la Cina, e poi passare al Maga propriamente detto. Il tempo corre e la politica estera ha occupato fin troppo spazio nell’agenda di un presidente che non nasconde il suo disinteresse per questi temi. Se Trump ci sarà domani, lo farà nel suo stile. Sfoggiando il giocattolo che gli è stato regalato dal Qatar – il Boeing in sostituzione dell’Air Force One – alla pari di un oligarca che ostenta opulenza per far sentire piccolo e povero chiunque gli stia vicino. Fa strano dirlo di un presidente degli Stati Uniti. D’altronde, è plausibile che proprio questo show off possa risultare efficace e ridimensionare chi crede di essere il più forte. Che poi dal summit esca una concreta proposta di stop alle ostilità conta poco per Trump. Lui ha la giustificazione pronta. A entrambe le parti ha offerto qualcosa purché si parlassero. Sicurezza in cambio di materie prime a Kyiv. Il riconoscimento (fittizio) di aver vinto la guerra a Mosca. Se Zelensky e Putin non riuscissero a chiudere, non sarebbe colpa di Trump. Win-win, si diceva.
Lo stesso vale per Erdoğan. Certo, se salta il vertice è un’occasione persa per la Turchia di consolidarsi come mossiere del quadrante allargato Mediterraneo, Mar Nero, Medio Oriente. Però anche il sultano sarebbe ben capace di non accollarsi alcuna responsabilità. Perché dovrebbe? Lui è quello che ha rimesso le cose a posto in Siria, che parla con Israele, Hamas e l’Iran, con gli ucraini quanto i russi, che fa il lavoro sporco per conto dell’Unione europea bloccando gli immigrati e impiega fior fior di uomini nella Nato. Erdoğan ha aperto ai curdi. Cosa gli importa se a Istanbul non si arriva a un accordo tra Ucraina e Russia?
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