Sarebbe inutile fare l’elenco di tutti i rifiuti opposti da Hamas a qualsiasi praticabile soluzione del conflitto. Così come sarebbe inutile snocciolare tutti in casi in cui l’organizzazione terroristica palestinese ha violato gli accordi precariamente usciti dai vari round di negoziazioni negli ultimi diciotto mesi.

Ragionare in quei termini, infatti, e cioè tramite un rendiconto di quei rifiuti e di quelle violazioni, servirebbe soltanto a confondere in una selva di superflui dettagli la verità fondamentale: vale a dire che Hamas non vuole la pace di Gaza con Israele, perché la ragione della propria esistenza è che Gaza sia in guerra con Israele. Hamas, il 7 ottobre del 2023, non ha attaccato Israele “rischiando” che Gaza fosse distrutta e che tanti civili fossero coinvolti, ma “affinché” fosse distrutta con il massimo di perdite tra i civili. La restituzione degli ostaggi e la cessione delle armi avrebbero comportato, e comporterebbero ancora, la salvezza di Gaza: esattamente ciò che Hamas non può permettersi perché coinciderebbe con la fine del proprio potere.

Tutta la storia della guerra di Gaza – che è fatta da Hamas a Israele e ai palestinesi – è spiegata dal rifiuto generale che il terrorismo palestinese ha opposto, non già a questo o a quel comma delle bozze di accordo via via allestite, bensì anche alla sola ipotesi del proprio esautoramento. E questa generale, pregiudiziale avversione di Hamas a ogni accordo, che prevedesse la propria estromissione da qualsiasi futuro della Striscia, ha rappresentato la rovina definitiva dei mandanti e degli esecutori degli eccidi del 7 ottobre e, drammaticamente, la tragedia di Gaza. Le vaghe ipotesi di una tregua quinquennale a fronte della liberazione degli ostaggi, non solo non scioglievano, ma riproponevano tale e quale il nodo cui è impiccato il futuro di Gaza con Hamas in condizione di operare. E cioè di nuocere. Perché chiunque sa che i militanti di Hamas non userebbero quei cinque anni per fare alcunché di diverso rispetto a ciò che hanno sempre fatto e, soprattutto, rivendicano di voler fare: distruggere Israele e uccidere ogni ebreo che capiti loro a tiro, fino all’ultimo.

Chiunque sa che un simile accordo – per quanto comprensibilmente sollecitato dalla disperazione di alcune famiglie degli ostaggi – reitererebbe l’errore troppe volte commesso da Israele, nell’idea che lasciar vivacchiare Hamas arrecasse in corrispettivo sicurezza e pace. Non è mai stato così. Ogni acquisizione palestinese – a cominciare da quella puramente territoriale, coincidente con la cessione di Gaza – ha rappresentato un’occasione di conferma e consolidamento del potere delle organizzazioni fondamentaliste, mai un’occasione di contenimento delle loro ambizioni distruttive e delle loro pratiche aggressive. E se prima del 7 ottobre questa realtà era nota, ma vissuta in Israele come una specie di destino inevitabile, dopo sarebbe diventata semplicemente intollerabile. Una sensazione che andava aggravandosi nel corso della guerra ogni qual volta si faceva plateale che, pur liberato anche l’ultimo ostaggio, gli israeliani avrebbero avuto come dirimpettaia una società governata nello stesso modo, con la stessa brama genocidiaria e con la stessa, incrollabile fede nel progetto di fiorire sulle macerie di Israele.

La restituzione, qualche mese fa, dei due fratellini Bibas, rapiti e strangolati dalla gente che cantava vittoria sulle loro bare, rappresentava in modo molto efficace quanto fosse impraticabile ogni soluzione del conflitto che non prevedesse l’annientamento di Hamas. E non perché si trattasse di remunerare punitivamente quella barbarie, ma perché essa preconizzava quale sarebbe stato lo sviluppo del “dopoguerra” senza la sistemazione irrevocabile del cosiddetto “potere de facto”, esercitato a Gaza dalle attuali dirigenze palestinesi. È ormai di parecchi mesi fa l’ammissione dell’uscente Segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, costretto a riconoscere, mentre lasciava l’incarico, che non era stata fatta nessuna pressione affinché Hamas cedesse le armi, pre-condizione di qualsiasi accordo appagante.

Un riconoscimento tardivo, quello di Blinken e destinatario di poca stampa, giacché la predilezione diffusa era per una vacua cessazione delle ostilità che accantonava quell’esigenza prioritaria. Vacua nel senso che le tregue innominate e umanitarie non avrebbero comportato la cessazione, ma la riorganizzazione delle capacità ostili di Hamas. Lo slogan, si ricorderà, era “Tutti gli occhi su Rafah”: andava bene soprattutto a Hamas, che non operava su Rafah, ma sotto, nella rete di tunnel vietata ai civili palestinesi e inopinatamente estranea alle preoccupazioni pacifiste. Il terrorismo palestinese che assedia Gaza non può permettersi la pace. Non può permettere che Gaza si salvi.