La riforma Cartabia non piace alle toghe. In verità la riforma è poca cosa rispetto all’esigenza di un rinnovamento profondo del pianeta giustizia, che è avvertito come indilazionabile da tutti gli operatori della giustizia diversi dai magistrati. Ciononostante, questi ultimi si oppongono strenuamente sino a minacciare, da ultimo, il ricorso allo sciopero contro la riforma. Il che, al di là di ogni considerazione sul merito di quest’ultima, pone la questione di fondo della legittimità di una iniziativa del genere.
È una questione che si era già posta, a cavallo degli anni 70 e 80, quando la magistratura aveva evocato lo sciopero per ottenere un miglioramento del proprio trattamento economico.

All’epoca Magistratura Democratica contestò la legittimità dello sciopero, non ritenendo ammissibile lo sciopero di un potere dello stato, mentre le altre correnti sottolineavano che altrimenti i magistrati, nella loro veste di dipendenti pubblici, sarebbero restati privi dello strumento di tutela concesso a tutti gli altri lavoratori. La questione fu superata dall’accoglimento delle richieste di carattere retributivo che erano state avanzate, esito sul quale incise in modo non irrilevante la diffusione sulla stampa della foto del magistrato Mario Amato, assassinato dai Nar il 23 giugno 1980, riverso sul marciapiede e con in primo piano le scarpe con la suola bucata. Oggi, il tema dello sciopero dei magistrati si ripropone in tutt’altra prospettiva: come strumento di lotta per impedire che il Parlamento approvi una riforma del sistema giustizia non gradito a chi ne ha la gestione. Lo sciopero, dunque, non è rivolto a dare forza alle richieste di carattere sindacale di una determinata categoria di dipendenti, i magistrati appunto, bensì ad incidere sulle caratteristiche che deve avere uno dei servizi essenziali, erogati da uno Stato ai propri cittadini, quello della giustizia, e sui rapporti che devono esistere tra i soggetti legittimati ad erogare tale servizio e gli altri poteri dello stato.

La funzione dello sciopero sarebbe squisitamente politica e proprio gli orientamenti, interni alla magistratura associata, che a suo tempo avevano sostenuto la illegittimità di uno sciopero per ragioni economiche, oggi sembrano sostenere la legittimità di uno sciopero di natura politica, quale è uno sciopero volto ad incidere sui rapporti tra i poteri dello Stato. Lo strumento dello sciopero, quale mezzo di lotta politica, è ben conosciuto alla prassi sindacale, anche italiana. Il ricorso allo sciopero generale è stato, difatti, nella storia repubblicana uno strumento con il quale il movimento sindacale ha inteso mettere in discussione, in genere riuscendovi, gli equilibri politici esistenti in un determinato momento. Nessuno, peraltro, ha mai dubitato della legittimità di quel tipo di sciopero. Le ragioni sono evidenti. Da un lato, l’art. 1 della Costituzione proclama solennemente che la Repubblica è fondata sul lavoro e, dall’altro, il mondo del lavoro, come tale, non ha rappresentanza nelle istituzioni. Di conseguenza, il suo ruolo, inevitabilmente anche politico, non può che esprimersi attraverso i tipici strumenti a disposizione del sindacato, tra cui appunto anche lo sciopero.

Considerazioni diverse non possono non essere fatte per i magistrati: hanno un ruolo istituzionale che si sostanzia nell’esercizio di uno dei poteri fondamentali di uno Stato, quello di dare giustizia. Essi, nel loro insieme, sono qualificati dalla Costituzione come Ordine giudiziario e non già come potere, ma, individualmente, esercitano un potere dello Stato. In questa prospettiva, dunque, occorre chiedersi se sia legittimo che un potere dello Stato si fermi per imporre agli altri poteri dello Stato la propria volontà in ordine all’equilibrio dei reciproci rapporti. Per fare degli esempi basta pensare ad un presidente della Repubblica che incrocia le braccia perché pretende più potere nei rapporti con il Parlamento o ai parlamentari che bloccano l’attività legislativa per protestare contro alcune sentenze che riguardano la funzione legislativa. Si tratta, in tutta evidenza, di esempi sgangherati. Ma che sono utili proprio perché riescono a dare conto con immediatezza della sgangheratezza dell’ipotesi stessa di uno sciopero dei magistrati per motivi politici.

Resta una considerazione da svolgere. Il fatto stesso che una ipotesi del genere sia seriamente presa in considerazione dai leader della magistratura associata indica quanto si sia abbassato il livello di consapevolezza istituzionale oggi presente nella magistratura italiana. L’idea stessa di uno sciopero politico dei magistrati si concilia perfettamente con quella deriva populista che la giustizia italiana, in alcune frange, ha fatto propria. Basta pensare alle conferenze stampa di alcuni procuratori della Repubblica, che appaiono più come i proclami di condottieri di eserciti sul campo di battaglia, che come la composta espressione di chi è chiamato a svolgere un ruolo nel servizio giustizia. Del resto, emblematica della volontà di certa magistratura di esondare dal ruolo che le è proprio, resta la dichiarazione pubblica che tutti i magistrati del pool della procura di Milano, che si occupava di Mani pulite, rilasciarono nel marzo 1993 contro il decreto Conso, volto a depenalizzare il finanziamento illecito dei partiti. Al di là del merito del provvedimento, fu una iniziativa con lo scopo evidente di ottenere un diretto coinvolgimento dell’opinione pubblica e di esercitare, per questa via, un ruolo politico completamente al di fuori degli assetti istituzionali voluti dalla Costituzione repubblicana.

Oggi, la presa della magistratura sull’opinione pubblica è infinitamente più modesta. Le dichiarazioni dei dirigenti dell’Associazione Nazionale Magistrati contro la riforma, nonostante il tono acceso, non hanno lasciato alcuna traccia. Si tenta, perciò, di far salire il livello dello scontro mediante il ricorso allo sciopero. Esso, se sarà effettivamente dichiarato, darà ulteriormente conto, in modo inoppugnabile, del fatto che la crisi della giustizia in Italia non può essere relegata ad una dimensione meramente funzionale, ma è innanzitutto dovuta a profonde crepe del tessuto istituzionale.