Questo 15enne non si muove, non si alza, non sventola una mano. I Rolling Stones non li conosce proprio, neanche per sentito dire. “Ho accompagnato papà”, dice dagli spalti dello Stadio San Siro di Milano per quello che i giornali hanno annunciato – chissà – come l’ultimo concerto della più longeva rock band della storia in Italia. E lui, il 15enne, si scompone appena, ogni tanto si alza, fa qualche video. Sarà venuto come quando i tuoi ti costringono a una gita domenicale ma tu avresti preferito uscire con gli amici. E viene in mente la tendenza sempre più in voga di duettare in concerto con cantanti morti. E quell’amico che ti ha tirato fuori il Madame Tussauds e altre cariatidi parlando della più grande e longeva rock band di sempre. Da vedere come si va a vedere un monumento, un museo, qualcosa anche un po’ voyeuristico, di novecentesco. Il tour Sixty celebra effettivamente i 60 anni della band britannica.

Superati i timori della vigilia per Mick Jagger contagiato dal covid, San Siro è tutto una linguaccia già da fuori, dai parcheggi ai tornelli, tatuaggi, anche il palco ha quella forma. Fila al merchandising con t-shirt che partono dai 35 euro. Aprono i Ghost Hounds, che suonano come una cover band dei RS che non suona canzoni dei RS. Ovvero il prototipo di frontman esplosivo, chitarrista lussureggiante e sezione ritmica poderosa che con gli Stones è diventato una regola, formazione titolare da rock band. E a giudicare dai 57mila al San Siro, dal colpo d’occhio e da quattro generazioni diverse di spettatori, lo slogan “lascereste che vostra figlia uscisse con uno degli Stones?” ha fatto il suo tempo. Tutti lascerebbero: gli Stones non sono più i brutti, sporchi e cattivi della musica. Anzi piuttosto rassicuranti, quasi come i Maneskin che si sono offesi quando lo stesso Jagger ha detto che il rock è moribondo.

Certo stupisce anche questa longevità considerata la quintessenza del rock che hanno incarnato, e non solo nel loro calderone blues, beat, soul, r&b con intuizioni tribali e funky e jazz che ha segnato il rock, ma anche da uno stile di vita eccessivo, opera d’arte maledetta anche quello, diventato tragico nella loro traiettoria tra dipendenze e la morte precoce di Brian Jones. Eppure eccoci qui. Lo stadio pieno davvero, pulsa, colpo d’occhio sempre notevole che fa recuperare qualche punto che il vecchio Meazza perde per l’acustica. Esplode al riff di Steet Fighting Man che apre il concerto. “Ciao Milano! – saluta Mick Jagger – Che bello tornare qui a Milano. 55 anni fa abbiamo fatto il nostro primo concerto in Italia. Grazie di essere ancora qui con noi”. Il primo pensiero è per lo storico batterista, Charlie Watts, scomparso lo scorso agosto a 80 anni. “Questo è il nostro primo tour europeo senza Charlie e ci manca tantissimo”.

Altra scarica di energia su Tumbling dice, con Dead Flowers e Wild Horses si intuisce che la scaletta riportata dai giornali alla vigilia non è proprio quella – evviva! La mediocrità degli ultimi album avrebbe potuto spezzare l’incantesimo che ogni tour continua a proporre e invece dal vivo i RS sono la solita macchina da guerra. Questa la prima differenza reale con i Beatles: imparagonabile la quantità di persone che ha visto i Fab Four, imparagonabile anche l’impatto live dei finti rivali. Scorrono i pezzi, uno dopo l’altro. Presi da soli avrebbero potuto consacrare la carriera intera di una band e invece sono tutti nello stesso repertorio, roba da matti. Più che Madame Tussaud i RS sono una Reina Sofia della musica, Guernica del rock, monumento vivente delle melodie pop del Novecento.

Chitarre affilate, quelle di Keith Richards e Ronnie Wood, si attorcigliano nel loro stile inconfondibile. Richards, l’uomo che fece credere al mondo di aver sniffato le ceneri del padre mischiate alla coca, omaggia gli amati blues ed R&b nella sua parentesi al microfono. Jagger a un certo punto fa un po’ di affanno. Prende in giro o è serio? Quale droga o pozione avrà utilizzato per ballare e cantare ancora in quella maniera? Possibile che a tutti faccia male la schiena, sempre, e quello ha 78 anni? Possibile che ha la stessa età di Toto Cotugno, due anni in più di Cocciante? Anche questo, l’incredibile e l’eccesso, sono gli Stones.

Il primo coro trascinante nella canicola che il frontman paragona al V canto dell’Inferno di Dante è su Out of time, si incendia la platea con Sympathy for the devil, energia pura Start me up, Jumpin’ Jack Flash è un treno elettrico, la straordinaria Gimme Shelter un pensiero all’Ucraina con l’immagine delle macerie e Richards in camicia blu e papalina gialla a richiamare la bandiera. Si chiude sul riff più noto di sempre: Satisfaction. Solo qualche giorno e il 12 luglio saranno 60 anni esatti anche dal primo concerto degli Stones, al Marquee di Londra.

Ci saranno state sicuramente occasioni migliori, anni migliori per vederli dal vivo. Ci sarebbe stato sicuramente più entusiasmo da giovanissimi o adolescenti, quando si scopre il rock e la sua euforia selvaggia. Solo che quello che si vuole a volte non arriva, a volte arriva tardi, in un momento meno brillante, meno rock, e quindi è già cambiato, ed è tutto diverso. You can’t always get what you want, ha cantato lo stadio in un coro da brividi. Quel 15enne avrà almeno scoperto di aver visto la più grande band rock dal vivo. Potrà postare qualche video sui social, vantarsene un giorno.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.