Detenuti temporaneamente assegnati alle carceri nelle regioni di provenienza, telefonate ai familiari più lunghe, colloqui in spazi riservati. E poi permessi “più generosi”, locali più accoglienti per i figli dei reclusi e mini-appartamenti per consentire ai condannati di trascorrere qualche ora di vita “normale” in compagnia dei parenti. Sapete quante di queste proposte, emerse durante gli stati generali dell’esecuzione penale del 2015, si sono tramutate in realtà? Nessuna. E così l’affettività di chi si trova nelle carceri italiane, incluse quelle campane, viene sempre più spesso mortificata.

Il tavolo di lavoro chiamato a occuparsi dei sentimenti dei detenuti aveva formulato una serie di suggerimenti che avrebbero dovuto modificare l’ordinamento penitenziario definito nel 1975. Così non è stato, visto che il testo della riforma è arrivato in Parlamento alle soglie delle elezioni del 2018 ed è stato successivamente depotenziato dal governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle. Le conseguenze di questo flop sono evidenti, anche e soprattutto in Campania. Pensiamo al tema della territorializzazione della pena. Il tavolo aveva suggerito di assegnare temporaneamente i detenuti “di fuori regione” a penitenziari sul loro territorio di origine, in modo tale da favorire gli incontri con i familiari. Esempio: un siciliano detenuto in Campania avrebbe potuto chiedere e ottenere la possibilità di trascorrere un mese in un carcere della sua regione di provenienza. Questa proposta è rimasta lettera morta con buona pace dei detenuti non campani che si trovano nella nostra regione e non sono pochi. Secondo la relazione annuale del garante campano dei detenuti, nel 2019, nelle prigioni campane si contavano almeno 377 reclusi provenienti da altre regioni, pari al 7% del totale. Tra questi 234 erano registrati a Secondigliano, 40 a Poggioreale e 31 a Nisida. Per loro, ovviamente, incontrare i familiari era ed è più complicato. «Eppure – sottolinea il garante Samuele Ciambriello – il successo dell’attività di reinserimento dipende dalle condizioni in cui viene svolta, quindi anche dalla possibilità per chi è ristretto di incontrare i propri familiari».

Ancora, il tavolo suggeriva di concedere “permessi di affettività” in casi di particolare rilevanza per i parenti del detenuto. Era proposto l’aumento dei colloqui da quattro a sei e delle telefonate da due a quattro anche per i reclusi per reati più gravi. Per questi ultimi si prevedevano non più dieci ma venti minuti di telefonate a settimana, con la possibilità di “consumarli” in più giorni, e un più largo utilizzo della posta elettronica. La vera novità era l’introduzione di colloqui intimi, cioè di incontri non sottoposti a controllo visivo e auditivo. Anzi, l’architetto Luca Zevi aveva ipotizzato persino la costruzione di mini-appartamenti, dotati di cucina e di letto, in cui i detenuti avrebbero potuto trascorrere 24 o 48 in compagnia dei familiari. «Anche questa proposta non ha avuto seguito – fa sapere Zevi – ma non demordo: con le risorse del Recovery Fund l’Italia può rifondare il sistema penitenziario che è parte integrante dello Stato sociale. È ora di mettere in campo una progettualità ambiziosa che renda le carceri luoghi di riabilitazione e non di mera afflizione».

L’ultima proposta riguardava la creazione di case famiglia protette, indispensabili per evitare la permanenza in carcere dei bambini con le loro madri detenute. Anche questo fenomeno è diffuso in Campania: attualmente sono sette le mamme recluse e nove i bambini con meno di tre anni di età che vivono dietro le sbarre tra Lauro e Salerno, dove si trovano i due penitenziari attrezzati per accogliere questo particolare tipo di ospiti. In Campania, dunque, ci sono bimbi che trascorrono in carcere i primi mesi di vita, lontani da affetti e contesti familiari, costretti a subire assurde costrizioni. Le proposte emerse durante gli stati generali dell’esecuzione penale avrebbero potuto correggere le aberrazioni del sistema penitenziario italiano. Invece, ancora una volta, nella classe politica ha trionfato quella voglia irrefrenabile di manette e carcere che procura un facile consenso a qualche partito.

«Certe proposte non sono passate perché manca una cultura della pena costituzionalmente orientata – sottolinea Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane – Bisogna capire e far capire che al detenuto può essere tolta la libertà, ma non la dignità. E, in questa prospettiva, l’affettività dei reclusi va tutelata in modo continuo: solo così chi si trova in carcere può dimostrare di essere diventato una persona migliore, una volta scontata la pena».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.