“La sessualità in carcere è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario da riformare. Oggi il carcere è diventato un luogo volto a punire più che a rieducare”. Provocatore, senza peli sulla lingua ma soprattutto un lottatore per i diritti dell’uomo in tutte le sue forme. Chef Rubio, all’anagrafe Gabriele Rubini, è un ex rugbista, cuoco e attivista contro le ingiustizie spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni di sfida nei confronti degli argomenti più spinosi. L’ultima riguarda un suo messaggio su Twitter in cui ha definito il carcere un luogo ‘gay friendly’. Nello specifico, il suo tweet poneva sotto una lente di ingrandimento il grande problema delle carceri italiane e di come “le sfere su cui agisce la deprivazione carceraria sono l’autonomia, l’affettività, i beni materiali, la sicurezza personale e i rapporti eterosessuali. Vietati i rapporti eterosessuali e sostituiti di fatto con quelli omosessuali, si può dire che il carcere è gay friendly?”. Apriti cielo. E’ bastato l’accostamento tra carcere, discriminazioni e omosessualità per sollevare un polverone mediatico. Anche se è esattamente ciò che Rubio voleva, come spiega al Riformista.

Dopo il tuo messaggio in cui definito il carcere come un luogo “gay friendly”, hai ricevuto molte critiche e molti attacchi soprattutto dalla comunità Lgbt. La tua provocazione quindi è arrivata…
C’è stata una reazione isterica al mio tweet. La definizione di ‘gay friendly’ dovrebbe essere inteso anche come un luogo, in questo caso specifico il carcere, che accoglie i gay. Ho posto la questione in maniera provocatoria di proposito, altrimenti non avrei ricevuto il polverone che poi si è effettivamente alzato perché non è il primo tweet che faccio sulla situazione carceraria e a favore dei detenuti. L’ho usata volutamente in maniera parziale affinchè si potesse porre l’attenzione su un problema che non riguarda solo la sessualità ma lo schifo della situazione carceraria italiana e mondiale. Dire che il carcere non accoglie le relazioni omosessuali è sbagliato, come lo è dire che non le discrimina. Se avessero letto con attenzione, le persone che si sono scatenate solo su una parte del messaggio avrebbero colto che il punto che cercavo di centrare era riferito alle sfere su cui agisce la deprivazione carceraria quali l’autonomia, l’affettività, i beni materiali, la sicurezza personale e i rapporti eterosessuali. E invece si sono attaccati alla parola ‘gay friendly’. Insomma, ne stiamo parlando della cosa quindi mi sembra che il tweet sia andato a buon segno altrimenti non ci sarebbero state delle isteriche risposte da parte di persone “arcobalenate” che sono spuntate come funghi solo in questa occasione. Mi chiedo dove fossero quando non toccavo il nervo scoperto dell’omosessualità. Nel mio tweet le persone omosessuali non c’entravano nulla, se non l’utilizzo dell’argomento per porre l’attenzione su un problema che è molto più ampio. Le analisi fatte dalle persone omosessuali che si sono sentite toccate nel profondo sono state quanto più sbagliate, leggere, egoriferite e poco solidali alla causa carceraria. Come faccio con tutte le esternazioni che mi contestano essere troppo forti, sono semplicemente dei trabocchetti dove voglio far cadere le persone. Anche in questo caso, sono riuscito con un discorso più largo a tirare dentro delle persone le quali, andando a spulciare nei loro profili, non avevano mai menzionato nulla al di fuori della loro battaglia, giustissima, contro le discriminazioni Lgbt. Ma vorrei che questi utenti si facessero un esame di coscienza perché io, al contrario di molti di loro, lotto e combatto per tutte le ingiustizie. Quindi questo mini-scandalo sulla mia esternazione lascia il tempo che trova.

Il tweet ha senza dubbio colpito nel segno. Infatti sei stato definito omofobo per questa tua esternazione…
Capirai, sono anni che me ne dicono di ogni anche su questo argomento. Nichi Vendola, ad esempio, non fa altro che mettere like ad ogni mio tweet. Insomma, le cose sono due: o è poco gay lui o sono poco omofobo io. In carcere, finché non mi è stato impedito l’accesso, ci sono entrato decine e decine di volte. Sono stato nel carcere romano di Rebibbia, a Torino, a Bologna e in tante altre carceri italiane e mondiali, come il carcere di Al Tiba a Gaza. Sfido queste persone che digitano istericamente ad avere una loro certa risposta all’interno delle carceri non da detenuti, non da parenti ma da persone che entrano a fare dei percorsi. Io ci sono entrato e ci rientrerò quando mi ridaranno il permesso. Il tema delle carceri lo conosco molto bene non solo perché ho vissuto quegli ambienti, ma perché ci studio, ci lavoro. Sono diversi i libri e i toni accademici che ho letto, che leggo e che consiglio con molto piacere. Tra tutti consiglierei Punire, Farsi la galera, Correvo pensando ad Anna, Fine pena ora, I duri, La casa del nulla e sono soltanto alcuni. Le persone prima di criticare dovrebbero studiare ed entrare nelle carceri invece di scrivere su Twitter e basta. Leggere dei testi su questo argomento permette di uscire da questa sorta di voluta provocazione perché all’interno di queste opere letterarie, che io considero dei capolavori, c’è scritto che il problema principale all’interno delle carceri è l’impedimento di qualsiasi tipo di approccio amoroso con l’esterno. Non dico delle eresie se affermo che un detenuto o una detenuta non può fare sesso con il proprio o la propria compagna, perché non c’è questa possibilità. Non si può fare neanche del sesso mercenario, che sarebbe la cosa più sana del mondo. Ci sono delle realtà in altre carceri del mondo in cui è possibile avere delle operatrici o operatori sessuali. In Spagna, ad esempio, come mi hanno raccontato molti ragazzi che ho conosciuto a Rebibbia quando ho organizzato dei progetti formativi e inclusivi nel carcere, c’è l’opportunità di avere a disposizione delle “love room”, ovvero degli spazi per la cura degli affetti dove si possono appunto consumare dei rapporti sessuali. Ti porto un esempio: se sei eterosessuale, in caso di lunghe condanne, nel corso degli anni dove non puoi praticare attività sessuali che non siano l’autoerotismo, automaticamente si entra in una deprivazione più totale della tua vita, del tuo passato e ti reinventi. Questo è testimoniato da sociologi, antropologi, attivisti detenuti. Non lo dico io, ma mi sono attenuto a ciò che ho studiato e ho lanciato volutamente il sasso perché sapevo che se non avessi tirato in ballo la componente omosessuale il mio messaggio sarebbe rimasto lì, con i pochi like che raccoglie un tema scottante come il carcere.

Il tuo intento era metterli insieme forse anche come banco di prova per vedere quali dei due temi spinosi avrebbe attirato più attenzione…
Sul tema carcere di questi paladini dell’omosessualità non ho visto nessun tweet a favore dei 13 morti ammazzati dallo Stato nelle rivolte delle carceri a marzo. Io sono in contatto con i parenti, aiuto come posso, e questo significa che le persone fanno le crociate solo per quello che gli pare e quando gli pare. E non si deve sentenziare come si espone un problema, perché è una strategia mia fare da eco in questo modo. Se gli utenti che incappano in un mio messaggio notano qualcosa di strano, invece di aggredire dovrebbero chiedermi per quale motivo scrivo determinate cose e avrebbero ricevuto delle risposte piuttosto che concentrarsi sulla parola “gay friendly”, usata come esca e sono tutti caduti come pere. Per me la cosa grave è che il sistema carcerario in generale è sbagliato. Che poi all’interno delle carceri le persone omosessuali siano discriminate sì, ma anche no. Perché non è automatico che se sei omosessuale sei ovunque ghettizzato. Non mi concentrerei su un fattore di orientamento sessuale quando si tratta di umani. Il fatto che nessuno sappia e che neanche loro sapevano che una persona facendosi lunghi anni di carcere e non potendo avere rapporti con la propria compagna o con una prostituta o con un’operatrice del sesso, con qualunque sostantivo la vogliamo chiamare, alla fine cede ad assecondare le proprie esigenze con gli altri detenuti. Credo sia un problema che vale la pena evidenziare e non vedo perché non parlarne. Non è detto che da persona eterosessuale il detenuto ne esca poi omosessuale, è uno stigma. E se diventa tale, si è più bigotti di quelli che si cerca di combattere. Le persone che mi hanno accusato dopo i miei tweet andassero a rivedere ciò che ho scritto sull’omosessualità e sulla sessualità in generale, l’argomento centrale infatti è anche l’eterosessualità. Che non fagocitino le parole solo perché le problematiche all’esterno del carcere sono ovviamente più predominanti su una criticità dei diritti dell’omosessualità, dei trans, delle lesbiche che rispetto e che supporto. Non banalizziamo tutto in questa maniera, altrimenti non arriveremo mai al vero problema se si concentra tutto sul termine ‘gay friendly’.

In quest’ottica il libro ‘Sesso nelle carceri italiane’ riporta dei dati precisi secondo cui il 70-80 % dei detenuti si presterebbe a pratiche omosessuali e soltanto il 10 % rinuncerebbe per scrupoli morali e sentimentali
Ovvio, non bisogna neanche stupirsi. Se poi sei omosessuale e ti stranisci che io dica che all’interno delle carceri per ovvie ragioni prima o poi ci si presta a pratiche omosessuali, chiediti come farebbero a dare adito alle loro esigenze sessuali. Nelle carceri fanno entrare psicofarmaci di nascosto, entra la droga e non entra l’amore? Non può entrare la cosa più sana del mondo come il sesso? Anche in questo l’Italia si conferma come uno dei Paesi più bigotti. Ancora si grida allo scandalo se in altri paesi i detenuti hanno del tempo dedicato per avere anche rapporti coniugali, gente riesce a fare figli nelle carceri e noi che facciamo entrare di tutto non permettiamo di concedere beni affettivi. Sfido chiunque, compreso il più macho del mondo a farsi 10 anni di carcere e a non assecondare questa esigenza. Fare l’amore è come mangiare, dormire, è un’esigenza naturale. La gente parla senza sapere, senza studiare, senza fare. Bisogna fare nella vita. Andassero nelle carceri che c’è tanto bisogno di umanità e di rendere più dignitosa un’esistenza vergognosa fatta di privazioni. L’omosessualità non è una problematica ma lo è la privazione della natura sessuale con cui uno si trova a proprio agio. Hanno gli stessi diritti. Pensa te, i detenuti si fanno andare bene anche l’omosessualità senza discriminazione pur essendo eterosessuali. Quindi non c’è una discriminazione di genere e di orientamento sessuale, ma una discriminazione totale privo di qualsiasi fondamento di umanità.

Quindi in questo senso il carcere ‘gay friendly’ è inteso come uno spazio che accoglie senza distinzione, ma discrimina chiunque a partire proprio dalla sfera della sessualità
Esatto. Il carcere è un luogo che accoglie omosessuali, ma la discriminazione avviene per gli omosessuali tanto quanto per gli eterosessuali, gli arabi, le persone del Sud se sono recluse nelle carceri del Nord. Insomma, le discriminazioni non hanno genere all’interno delle carceri. Questa è la dimostrazione di quanto siamo poveri e ci rifugiamo in fazioni: chi lotta per la donna è solo per la donna, chi lotta per gli omosessuali è solo per gli omosessuali. Non c’è mai una coesione: sono poche le volte in cui ho notato una coesione nelle lotte alle ingiustizie. E’ un dato di fatto ciò che ho sollecitato. Ho riportato delle dichiarazioni e degli studi di accademici e studiosi che hanno studiato il tema delle carceri per e da almeno 30 anni. Personalmente nelle carceri ho creato dei progetti inclusivi in cui è stato persino vietato alle persone transessuali di poter accedere ai miei corsi e ai miei incontri. All’interno del carcere di Rebibbia, infatti, ci sono delle persone transessuali e purtroppo per la giustizia italiana vengono discriminati e non possono prendere parte ai progetti. Vivono in una sezione separata, non sono insieme agli altri detenuti e fanno poche attività sempre monitorate. Nei miei corsi, ad esempio, non ho potuto avere due ragazze trans che avevo visto passare nei corridoi mentre tenevo un incontro. Ho richiesto che facessero lezione con me, ne avrei avuto piacere, ma le guardie carcerarie hanno detto che loro non potevano partecipare, senza una reale giustificazione. Era ovvio che di fondo c’era una discriminazione. Anche se, il punto nevralgico, è che le discriminazioni non riguardano solo le persone omosessuali ma tutti, indistintamente.

Dal carcere Dozza di Bologna passando a La Spezia fino al carcere Vallette di Torino, hai sempre messo a disposizione la tua arte e la tua sensibilità come persona. I tuoi progetti hanno avuto un seguito?
Abbiamo parlato di ciò che succede dentro ma ciò che succede fuori, appena i detenuti escono dal carcere, è ancora peggio se così si può dire. I miei progetti, ad esempio, sono stati percorsi a ostacoli. In quelli di cucina non potevano entrare gli ingredienti che chiedevo e non potevamo usare la strumentazione perché ritenuta pericolosa. A volte c’erano ostracismi da parte dei direttori delle varie carceri in cui sono stato, ai quali non interessavano a fondo le proposte che provenivano dall’esterno ed era svilente. Sono rimasto deluso dall’approccio al lavoro e al rispetto soprattutto nei confronti dei ragazzi. La percezione della gente, la percezione delle reali opportunità che sono fatte di abbandono sono mancanze gravissime da parte dello Stato. La sessualità è quindi solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario sbagliato che va riformato. Magari non è il problema principale, ma è sicuramente quello che renderebbe il detenuto una persona meno sola, più attiva, meno incline all’autolesionismo, più partecipe. Non tutti i detenuti possono lavorare, ma solo i raccomandati o chi fa un favore ad un altro carcerato o entra nelle grazie del responsabile. Anche se il vero lavoro deve avvenire una volta fuori dal carcere. Tra le mura della prigione è come se lavorassero in un limbo, ma in realtà hanno fatto parte solo di una catena di montaggio e non sanno come ci si rapporta una volta liberi. E’ un lavoro che va fatto sia dentro che fuori. I progetti sono illusori perché li mettono nella condizione di sognare, ma basta una nota di demerito e li cancellano dalle varie attività. Privano il detenuto dei corsi, dei progetti ed è estremamente devastante a livello psicologico la labilità con cui entrano ed escono in situazioni che non fanno il bene della persona che si ritrova così a vivere nell’incertezza ogni giorno. Se si innamora di qualcosa, sa che il giorno successivo possono negargliela o, come è successo nel mio caso a Rebibbia, non mi hanno più trovato di punto in bianco.

A cosa ti riferisci?
L’avventura più bella che mi hanno tolto da un giorno all’altro è stato il progetto Numb-Herz a Rebibbia, i cui corsi erano incentrati sulla lettura di classici greci con interpretazione dei personaggi e ne discutevamo facendo dei parallelismi con il presente. Fortunatamente riesco a stare in contatto con i ragazzi ma per loro è stata una mazzata devastante, si era creato un rapporto meraviglioso. La vicenda risale ad ottobre dello scorso anno, quando ho criticato il sistema per aver messo in pericolo la vita dei due poliziotti uccisi nel corso di una sparatoria in una questura a Trieste. Qualcuno dall’alto ha deciso che non potevo più entrare in carcere e mi hanno sospeso da qualsiasi tipo di attività senza alcuna motivazione ufficiale.

Come mai ti batti così tanto per le carceri?
Non ho studiato sociologia, antropologia o sociologia, ma posso affermare di aver studiato tanto quanto una persona che ha fatto un percorso di studi accademici. Mi interessa l’uomo a 360 gradi, che si tratti di cucina, fotografia, documentaristica, di carcere. Insomma, mi interesso dei diritti dell’uomo e non sopporto le ingiustizie. Non ho nessun carico pendente, ho la fedina penale pulita, non ho mai fatto atti criminosi eppure ho sentito che dovevo entrare all’interno delle carceri per comprendere per quale motivo tante cose non mi tornavano. Non sono un genio, non sono un santo. Semplicemente mi sono messo in discussione e sentivo che avrei trovato più umanità dentro un carcere che fuori. E così è stato. Il 99% delle volte i carcerati sono delle persone veramente sensibili, vittime di un sistema sociale e la colpa è nostra che non facciamo più lotta di classe e lotta sociale. Il sistema siamo noi. Si riduce il carcerato ad una figura mitologica e non ad un essere vivente. L’idea dei media e dei politici è di demonizzare, criminalizzare, stigmatizzare la figura del carcerato così che si giustifichi anche una lunga detenzione. Quanti ragazzi o ragazze sono in carcere in attesa di giudizio magari per una banalità. Si sta andando sempre di più verso una carcerazione facile, una pena più lunga figlia di una cultura giustizialista. Si dovrebbero educare le persone e i ragazzi partendo dalla scuola. Dalle medie ai licei, bisognerebbe che i ragazzi entrassero all’interno delle carceri per capire come funzionano, cosa accade tra quelle quattro mura e cercare di umanizzarli. E’ più facile criminalizzare e quindi allontanare piuttosto che unire e comprendere. Le persone non spenderanno mai del tempo a favore di un potenziale se stesso o un potenziale parente che per un errore potrebbe finire tra le sbarre. Finchè una situazione non si tocca da vicino, difficilmente le persone si mettono in discussione. Ma partire dai ragazzi e dall’educazione verso il prossimo e dalla lotta contro le ingiustizie sarebbe un primo importante passo.

A proposito di diritti dell’uomo, conosci Ilaria Cucchi? Cosa pensi di lei?
Conosco Ilaria Cucchi, è una guerriera. Ho solo parole di elogio e affetto nei suoi confronti. Se ci sono delle ingiustizie, se di deve sopportare la gogna cameratista e fascista delle sfere alte che cercano di allontanare e tacitare le forze dell’ordine dal popolo piuttosto che avvicinarle, dovrebbero battersi tutti come lei. Ilaria ha fatto grandi cose insieme a Fabio Anselmi (suo avvocato e compagno, ndr) e ha avuto anche noi, che come attivisti e sostenitori le abbiamo dato una grande mano nel combattere prima ancora che il caso Cucchi avesse una risonanza mediatica. Purtroppo il percorso non può dirsi concluso perché non c’è mai fine alle manomissioni, agli occultamenti e ai sabotaggi. Però ha fatto bene, sta facendo bene e sono sicuro continuerà a fare bene.

Chi si è battuto molto per i diritti dei detenuti è Marco Pannella, i cui scioperi della fame per il miglioramento delle condizioni delle carceri sono ormai diventati un caposaldo. Tu lo hai conosciuto, che ricordo hai di lui?
Ho conosciuto Pannella nel 2012. Abbiamo fatto diverse chiacchierate, interviste, avevamo anche una serie di progetti ma poi è venuto a mancare poco tempo dopo. Quando l’ho conosciuto era ormai stanco, ma nutro un rispetto e un affetto per l’uomo che vanno oltre il dispiacere degli ultimi tempi per le sue prese di posizione. Negli anni è diventato filo-sionista quindi potrebbe non piacermi questa cosa di lui, ma se lo inquadro in un’ottica generale non posso permettermi nemmeno di sentenziare su quello che ha fatto come persona. A netto del dispiacere che ho avuto quando ha cominciato a spendere parole di elogio per Israele, nel complesso per quello che riguarda il suo essere uomo e il suo schieramento dalla parte dei giusti non è sindacabile e neanche da mettere in discussione. Se tutti quanti facessero un decimo della vita che ha fatto Pannella forse vivremmo in un mondo migliore. Anche se, per quanto fosse diventato un simbolo per la lotta a favore dei diritti dei detenuti con i suoi digiuni, credo che purtroppo nessuno sia riuscito a fare abbastanza per le carceri. Penso, ad esempio, al libro Correvo pensando ad Anna, in cui si descrive la realtà carceraria degli anni 70’-80’ e mi rendo conto che c’era lo stesso schifo di oggi, anche se in una maniera diversa.

Cosa ne pensi del ministro della giustizia Alfonso Bonafede?
Non conosco Bonafede personalmente, ma credo che lui come tanti altri dovrebbe fare altri percorsi. Il ministro dovrebbe entrare in carcere e non far vedere solo le aree o i bracci che hanno riverniciato appositamente per dimostrare le condizioni in cui versavano le carceri italiane. Sarebbe giusto e utile se entrasse nelle prigioni con il cartellino due volte a settimana per sentire i racconti dei detenuti. Non ha la benché minima idea di come sia un carcere, di come le persone all’interno del carcere vengano trattate e dovrebbe spenderci del tempo da visitatore, partecipante e ascoltatore e non come entità dello Stato. Dei 13 morti durante l’emergenza Covid non se n’è più parlato, né lui si è mai degnato di porre l’accento su questo problema. Anche se a dirla tutta, quando mai un politico proferisce parola su qualcosa di sconveniente. Se si schiera contro le forze dell’ordine, il sistema giudiziario e il sistema carcerario è finito. Nessun politico lo farà mai. Non è lui la causa del male, Bonafede è solo una pedina.