Il flop del negoziato
Il flop della trattativa tra Unicredit e Montepaschi può essere un male che fa bene a tutti
L’ipotesi, che viene avanzata da alcuni, di una ripresa della trattativa da parte del Tesoro con Unicredit sul Montepaschi, dopo che sia stato deciso un aumento di capitale – e magari avviate all’attuazione altre misure che sono state discusse nella trattativa – sarebbe un “perseverare diabolicum”. Significherebbe che si realizzerebbero autonomamente interventi, da parte dello Stato, che prima erano almeno oggetto di negoziato e pesavano sul “ dare e avere”. Ai vantaggi della posizione contrattuale dell’Unicredit già dimostrati se ne aggiungerebbe un altro pur di arrivare a conclusione di una vicenda che è iniziata tredici anni fa con lo sciagurato acquisto di Antonveneta. Invece, occorrerà ponderare bene i passi da compiere dopo aver conseguito, discutendone con la Commissione Ue, un deciso allungamento del termine entro il quale il Tesoro deve provvedere alla dismissione, magari con una certa gradualità, della sua partecipazione nell’Istituto, ora pari al 64 per cento circa.
Non si può escludere tassativamente l’ipotesi di una scelta per il Monte “stand alone”; né si può omettere di considerare la possibilità di realizzare con l’Istituto e altre Banche il famoso terzo polo da tutti auspicato, ma per il quale nessun intermediario per ora appare ai nastri di partenza. Soggetti potenziali aggreganti non mancherebbero in teoria, a cominciare da Bper con il ceo Piero Montani con la sua particolare esperienza: ma a quali condizioni? Naturalmente, dopo il fallimento del negoziato per la non accettazione da parte di Unicredit della posizione del Tesoro, è difficile che altri Istituti accolgano ciò che non è stato accettato dalla Banca di Piazza Aulenti: è, questo, insomma, un altro dei riflessi negativi di una trattativa impostata e gestita male.
Insomma, oltre allo scoglio della posizione di Bruxelles, pronta a chiamare in ballo il divieto di aiuti di Stato, pur con l’attenuazione della proibizione in conseguenza della pandemia, è necessario aver chiaro quale sia l’approdo a cui si mira, ma anche non vincolarsi a scelte esclusive che rafforzano la controparte, come si è dimostrato. In questo quadro, se si esclude alla fine lo “stand alone” (ma dovrebbero esservi solide motivazioni), bisognerà avere anche dei punti fermi quali la salvaguardia del marchio con ciò che ne discende in termini di operatività dell’Istituto mantenendo la propria identità, di tutela dei lavoratori, di rapporti con l’economia del territorio, con famiglie e imprese. Insomma, si dovrebbe compiere un’operazione che non sia di pura risoluzione di un problema che provoca contrasti e tensioni, ma che guardi, facendo tesoro dell’esperienza “in corpore vili” sinora compiuta, anche alla riorganizzazione e al rafforzamento del sistema bancario italiano.
Di questo fanno parte anche altri istituti da rilanciare, come la Carige e la stessa Popolare di Bari, mentre è imminente la trasformazione in Spa della Popolare di Sondrio – con eventuali modalità da valutare – alla quale partecipa con una quota fino al 9 per cento UnipolSai, primo azionista di Bper. “Ex malo bonum”: la vicenda Montepaschi dagli errori compiuti può passare a possibile perno di una riorganizzazione in una parte importante del sistema bancario, avendo, però, costantemente presenti la tutela del risparmio e la spinta del credito all’economia. Ciò richiede non solo competenze tecniche, che ovviamente esistono nel Governo e in chi tratta questa materia, non solo la credibilità e l’affidabilità a livello europeo che pure sussistono, ma anche e soprattutto capacità politica, l’“ars rei publicae regendae”. Se, tuttavia, si mettono insieme i casi di questi giorni, in particolare il rapporto con i sindacati, i nodi delle pensioni e del fisco, la condizione del Montepaschi, i rinvii della riforma della concorrenza, si potrebbe dire che quest’arte, nel nostro caso, non è affatto pari alle competenze e al credito riconosciuto. Speriamo di sbagliarci.
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