Non mi è mai troppo piaciuta l’espressione “garantista”, perché mi sembra voglia significare troppo, o troppo poco. Il giudice deve essere “garantista” a prescindere, è il suo mestiere. Se non lo è, non è un giudice “non garantista”, semplicemente non è un giudice. Al contrario, il pubblico ministero e l’avvocato non devono essere “garantisti”: entrambi sostengono una tesi, accusatoria o difensiva, e l’unico limite è il rispetto della legge e della deontologia; sarà poi il giudice “garantista” a decidere. I cittadini normali possono essere “garantisti” o meno, sono fatti loro. Qui il limite è soprattutto di ordine logico, perché l’esperienza di centinaia di processi finiti con il riconoscimento dell’innocenza di persone a suo tempo arrestate fa seriamente dubitare della ragionevolezza di chi oggi si accontenta di un avviso di garanzia o di una misura cautelare per bollare qualcuno come colpevole.

La cosa si complica ulteriormente quando si confonde tra giudizio morale e vicenda giudiziaria che dovrebbero essere tenuti ben distinti. Si può essere infatti “innocenti” e moralmente spregevoli, perché le regole morali sono molto più esigenti di quelle giuridiche. E può accadere il contrario, come dimostrano i tanti “pregiudicati” di epoca fascista (da Pertini a Terracini) che hanno fatto onorevolmente parte dell’Assemblea Costituente. Anche il recente avviso di garanzia al governatore Vincenzo De Luca dovrebbe ragionevolmente essere accompagnato da un giudizio di attesa. Eppure l’opinione pubblica si è divisa tra colpevolisti per professione e innocentisti per vocazione. In questo caso, peraltro, non c’è nemmeno “giustizia a orologeria”, perché “a orologeria” è stata piuttosto la notizia giornalistica, in campagna elettorale, di un’indagine nata anni fa. No, la questione non si esaurisce mai nella contraddizione tra “garantismo” e “giustizialismo”, c’è sempre qualcosa di più profondo che sfugge a simili semplificazioni. E si tratta, credo, dell’uso che del “garantismo” e del “giustizialismo” viene fatto, che è un uso eminentemente politico.

Negli anni 1990, la sinistra riuscì ad approdare finalmente al governo, cavalcando l’ondata giustizialista di Tangentopoli. Un risultato che non aveva mai prima ottenuto con metodi schiettamente politici. E oggi le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si giocheranno probabilmente sulle contrapposte sponde del “Law & Order” (Legge e Ordine) agitato dal presidente repubblicano uscente, Donald Trump, e delle proteste del movimento Black Lives Matter contro il razzismo della polizia, cui si sono allineati i democratici. In ballo, ancora una volta, non ci sono i grandi valori, ma qualcosa di molto più concreto: la presidenza degli Stati Uniti. Il problema è che l’uso politico del giustizialismo tenderà inevitabilmente ad accentuarsi. L’Occidente (e non solo) deve confrontarsi con una situazione di grave fragilità sociale e una crisi economica di impreviste dimensioni, la gente vive una situazione di grave incertezza, tra Covid e disoccupazione, impaurita dalle fibrillazioni internazionali e i rischi di guerra sempre incombenti.

In questo quadro, la canea giustizialista è una formidabile occasione di sfogo ed è facilissima: prende di mira persone in carne e ossa, messe a disposizione dalla cronaca giudiziaria, esonerando dalla fatica di analizzare le cause e di individuare i veri responsabili del disastro che stiamo vivendo. Nei social network possiamo urlare tutta la nostra rabbia contro il catalizzatore di turno del rancore sociale, sia esso il presidente della Regione, raggiunto da un avviso di garanzia, o i ragazzi del “branco”, protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca di Colleferro. Possiamo chiederne l’impiccagione o lo squartamento immediato e senza processo, vendicandoci dei successi elettorali del primo o anche solo del fastidio che ci provocano le immagini da stupidi bulli che i secondi hanno postato sui loro account di Facebook.

Tutto questo serve in realtà al Potere, dà sfogo a frustrazioni che potrebbero altrimenti pericolosamente dirigersi contro obiettivi più concretamente politici. Garantisce in qualche modo il mantenimento della stabilità. Ebbene non è una novità né un’invenzione recente, è solo la versione (nemmeno tanto 2.0) del panem et circenses di cui scriveva Giovenale e che trova oggi una variante post-moderna nell’intreccio tra sussidi di Stato (fatti a debito) e l’incanalamento del rancore sociale verso il capro espiatorio di turno. In quel Colosseo moderno che sono i social network.