Nella sua relazione al convegno dell’Associazione italiana dei costituzionalisti del 2004 su Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale (da quanto tempo se ne discute…), Giuseppe Ugo Rescigno, per favorire la separazione strutturale tra giudici e pubblici ministeri, propose una regola semplice ma di straordinaria efficacia pratica: separare drasticamente le sedi fisiche di giudici e pubblici ministeri, oggi invece ubicate negli stessi edifici giudiziari, sia pure su piani e in corridoi diversi.

Tale proposta mi è subito tornata in mente quando il Procuratore Capo di Verbania ha dichiarato di non voler più per il momento continuare a prendere il caffè con la giudice per le indagini preliminari che non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia di Mottarone. Dove non si sa se restare sbigottiti perché si è ritenuta quasi un’offesa personale ciò che invece è previsto in Costituzione (il controllo dell’autorità giudiziaria sui provvedimenti provvisori limitativi della libertà personale adottati dall’autorità di pubblica sicurezza: art. 13, comma 3) oppure per la leggera (anzi, leggerissima) nonchalance con cui si rilasciano simili dichiarazioni, frutto della pavloviana incontinenza verbale che affligge certi magistrati al cospetto di telecamere e giornalisti. In ogni caso, “voce dal sen fuggita, poi richiamar non vale”, rivelatrice di quelle contiguità tra giudici e pubblici ministeri che, specie in tema di formazione delle prove e di libertà personale dell’inquisito, fanno sì che il secondo spesso riproduca pedissequamente le richieste del primo. Uno squilibrio all’interno dell’ordine giudizio destinato poi a riflettersi a sua volta nello squilibrio tra i poteri dello Stato, come dimostra il protagonismo di certi pubblici ministeri e la loro successiva “vocazione” politica.

Come è stato scritto in questo giornale dal Presidente delle Camere penali, non poteva dunque esserci spot più efficace delle dichiarazioni del Procuratore di Verbania per dimostrare l’ormai improcrastinabile necessità di separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri. Separazione che se da un lato non richiede una modifica costituzionale (come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 37/2000 quando ammise il referendum abrogativo in materia ora riproposto, in forma più incisiva, da Radicali e Lega per Salvini), dall’altro, proprio per estirpare quella radicale “cultura di prossimità” tra giudici e pm, richiede modifiche ben più organiche e profonde rispetto a quelle ipotizzate dalla Commissione Luciani, la quale si è limitata a proporre la riduzione da quattro a due delle possibilità di passare dalla funzione di pubblico ministero a quella di giudice, e viceversa.

Perché il processo si svolga effettivamente “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”, come prescrive l’art. 111 Cost. dopo la riforma da tutti condivisa sul c.d. giusto processo di 22 anni fa, non c’è ormai purtroppo altra strada che separare giudici e pm. Il che – sia chiaro – non significherebbe sottoporre questi ultimi al Governo o comunque al potere politico, dato che continuerebbero comunque a far parte dell’ordine giudiziario. È in quest’ottica, dunque, che andrebbe affrontato il tema estremamente delicato della definizione in sede parlamentare delle priorità dell’azione penale, che la Commissione Luciani ha lasciato aperto, limitandosi a proporre di eliminare il riferimento alle direttive emanate dal Csm. Piuttosto, altre due proposte della Commissione Luciani paiono non all’altezza dei problemi che vorrebbero risolvere: l’elezione dei membri del Csm e i magistrati in politica.

Sul primo tema, se l’obiettivo è sottrarre la competizione alla influenza nefasta delle correnti grazie al meccanismo oggi vigente (collegio unico nazionale e voti di preferenza), più che il voto singolo trasferibile (che mantiene di fatto le candidature di lista), sarebbe preferibile l’introduzione di collegi uninominali, gli unici per loro natura in grado di favorire le candidature indipendenti dei singoli.

Sul secondo tema, si sostiene che non si potrebbe impedire ai magistrati entrati in politica di far ritorno in magistratura poiché “chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto (…) di conservare il suo posto di lavoro” (art. 51, comma 3, Cost.). Argomento però non insuperabile dato che la Corte costituzionale ha da tempo chiarito che “l’espressione «conservare il posto di lavoro» (…) significa mantenere il rapporto di lavoro o di impiego, non già continuare nell’esercizio delle attività o delle funzioni in cui si concreta la prestazione del lavoratore o dell’impiegato” (sentenza n. 6/1960). Principio ribadito quando ha respinto le obiezioni d’incostituzionalità della disposizione che obbliga il magistrato candidatosi e poi e non eletto al trasferimento presso un ufficio giudiziario diverso rispetto alla circoscrizione elettorale in nome di beni giuridici costituzionalmente protetti, quali il buon andamento della giustizia e il prestigio dell’ordine giudiziario” (sentenza n. 172/1982).

Non c’è dunque alcuna preclusione costituzionale perché il legislatore ordinario non possa intervenire per destinare i magistrati entrati in politica ad altri incarichi (come quelli ministeriali, peraltro di solito ambiti dai magistrati che a tal fine si mettono in aspettativa). Di fronte ai fenomeni di estrema gravità emersi in questi mesi e che hanno profondamente minato l’autorevolezza e il prestigio della magistratura anche di fronte all’opinione pubblica, non è più tempo purtroppo di soluzioni accomodanti e epidermiche. A mali estremi, estremi rimedi.