Le difese contro 100 centimetri di acqua alta,
Il Mose esempio per il mondo, Venezia tra magia e resilienza
L’altro ieri sera, Venezia ha mostrato le sue difese contro 100 centimetri di acqua alta, risalita intorno alle 23.15 spinta dal vento di scirocco e bora, come il 28 agosto del 1995

Venezia oggi non è solo la più bella e delicata città del mondo, incastonata nell’unica laguna mediterranea abitata e soggetta alle alte maree dell’“Aqua granda” che può raggiungere anche i due metri di altezza, distruggendo qualsiasi insediamento. Ma è anche l’esperimento del mondo che potrebbe arrivare. E per questo la nostra città lagunare è una storia di infrastrutture di difesa dal nemico più temibile, il rialzo del mare globale, che vale la pensa di raccontare, capovolgendo il monito dell’Unesco che raccomanda di inserire Venezia nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, e inserendo piuttosto Venezia nelle città più resilienti del Pianeta. L’Italia, se solo volesse impegnarsi a fondo, potrebbe indicare al mondo un mare di soluzioni e aumentare molto le sue difese.
Ancora l’altro ieri sera, Venezia ha mostrato le sue difese contro 100 centimetri di acqua alta, risalita intorno alle 23.15 spinta dal vento di scirocco e bora, come il 28 agosto del 1995. Era la terza volta dopo il 1872 e il 30 agosto del 2020, ma per la prima volta la Basilica è rimasta asciutta grazie alla protezione della barriera di cristallo che la circonda da pochi mesi. Così piazza San Marco, che già a 80 centimetri si allaga, rispecchiava la bellissima luna e la città non ha subìto danni, e continuano i lavori per sollevare l’insula di San Marco a 110 centimetri, il livello in futuro previsto per sollevare le paratoie del Mose, oggi a 120 centimetri.
Venezia non è sola a combattere contro le maree e il rialzo del mare, ma in compagnia di tutte le regioni costiere di 135 paesi del mondo minacciati dall’innalzamento del livello degli oceani e dei mari, con una popolazione globale a grave rischio di finire in permanenza sott’acqua entro fine secolo. Il fenomeno è già in atto. L’altezza media del mare si è infatti sollevata di circa 23 cm dal 1880, e aumenta di 3,2 mm ogni anno. Basta fare un po’ di conti per capire che entro il 2100 il livello degli oceani si alzerà di quasi un metro, e centinaia di città costiere di tutto il mondo potrebbero trovarsi sommerse.
L’innalzamento però non è uguale per tutti, e non in tutto il mondo si combatte come a Venezia. Le regioni geografiche più vulnerabili sono gli atolli. Con un riscaldamento globale che viaggia ormai intorno e oltre i 2 gradi, a fine secolo sono a rischio il 93% della popolazione delle Isole Marshall, l’88% delle Isole Cayman, l’81% di Tuvalu, il 77% di Kiribati, il 76% delle Bahamas e il 73% delle Maldive. Tra le città, oltre alla capitale dell’Indonesia, Jakarta, ci sono Shanghai, Hanoi, Calcutta, Hong Kong, Osaka e Tokyo, Rio de Janeiro, New York e Buenos Aires, Amsterdam, Amburgo e San Pietroburgo, Los Angeles, San Francisco, New Orleans, il sud di Londra, Shanghai e Edimburgo.
Venezia è nata nel segno della resilienza. Quando, all’incirca seimila anni fa, nel mare basso lagunare di Venezia spuntarono tra barene e canali d’acqua le primitive capanne sorrette da pali conficcati nella sabbia fatte di legno, giunco e qualche pietra, i palafitticoli Venetici ebbero l’intuizione di ricavare le loro fondamenta con un incredibile anticipo di bioedilizia hi-tech, intrecciando fittissime trame di rami di legno flessibile, forse ripresi dai nidi degli uccelli. Il fermo-immagine dei primi lagunari vede famiglie di pescatori e di navigatori sfidare un ecosistema che sembrava impossibile alla vita umana, eppure la laguna veneziana è diventata la più attraente del mondo distesa per 550 km2 tra le foci del Piave e del Brenta per 50 chilometri di lunghezza e 11 di larghezza, con la sua curiosa forma a spicchio d’arancia, per il 67% sommersa dall’acqua, il 25% coperta di barene, l’8% da isolotti e il 15% da valli da pesca arginate.
Ai tempi dei Romani spuntò l’abitato di Altinum nel territorio dell’attuale Quarti d’Altino. Prima un castrum militare, poi cittadella con scalo portuale e scambi commerciali verso il largo mare. E oggi dove troviamo il suo sito archeologico con i resti del porto? A 2 chilometri nell’entroterra della laguna veneziana, in mezzo ai campi. Magia di duemila anni di trasformazioni che hanno letteralmente spinto in avanti la linea di costa.
Per capire di che pasta erano fatti i primi veneziani, c’è la lunga lettera di Flavio Aurelio Cassiodoro, il Prefetto Pretorio del re Ostrogoto Vitige che ebbe l’ambizione di conquistare l’Italia e assediò anche Roma nel finale dell’Imperium, inviata ai “Tribuni Marittimi Veneziani” nell’anno 537, nella quale dava atto della loro lunga storia e li incaricava del trasporto marittimo fino a Ravenna, allora capitale del regno barbaro. Omaggiava quei fieri navigatori di lagune e di mari, ammirato per le loro abitazioni costruite “alla maniera degli uccelli acquatici”, per le loro barche legate all’uscio come fossero animali domestici, per le loro uniche ricchezze che erano la pesca e la produzione del sale, e li lodava come l’unico popolo senza “il vizio dell’invidia” né differenze tra ricchi o poveri. La loro patria, concludeva, era l’acqua, ovunque le loro barche li potessero portare a “percorrete spazi infiniti”.
Dopo due millenni di lotta contro le alte maree, le alluvioni, le bonifiche, le canalizzazioni e il mitologico “taglio” del Po di Viro nel Seicento della Serenissima, ci fu il grande spavento del 4 novembre del 1966 quando l’Aqua Granda travolse Venezia con violenza eccezionale raggiungendo l’altezza record di 194 centimetri. Un dramma, come nell’Italia del centro nord con Firenze simbolo dell’alluvione.
A Venezia come altrove, passate la paura e l’emergenza, tutti ripetevano “facciamo qualcosa”, “non c’è tempo da perdere”. E cosa è stato fatto quando le acque si ritirarono, i negozi riaprirono, i tavolini dei bar tornarono al loro posto al suono delle orchestrine nello scenario da favola di San Marco? Come ricorda sempre Gian Antonio Stella, i lavori a parole “urgentissimi” diventarono “urgenti” poi “necessari” poi finiti in un ginepraio anche tangentizio.
Cosicché, per l’irriproducibile Patrimonio dell’Umanità, il nostro Parlamento aspettò il 16 aprile 1973 per varare la “Legge Speciale per Venezia”, la numero 171, che dichiarò “di preminente interesse nazionale” la salvaguardia della città e della sua complicata laguna. Lo Stato decise però di investire su Venezia come per nessun’altra città e opera pubblica. Ma lo fece con comodo, perché solo dieci anni dopo, con la legge 798 del 1984, fu istituito il Consorzio Venezia Nuova, soggetto attuatore di un progetto faraonico di ingegneria civile, ambientale e idraulica in grado di salvarla dall’onda massima di marea.
Ebbero l’idea suggestiva di chiamarlo “MOSE”, evocando il ritiro biblico delle acque del Mar Rosso, acronimo di “Modulo Sperimentale Elettromeccanico”.
La sua progettazione iniziò a fine anni ‘80 e, vista l’urgenza massima, i lavori urgentissimi li fecero partire il 14 maggio 2003, “appena” 37 anni dopo la grande piena del Novecento, e da allora con 13.505 giorni erano passati anche 37 governi della Repubblica! Per far cosa? Per realizzare la più grande diga mobile del mondo con 78 paratoie vincolate da cerniere a 20 cassoni di alloggiamento collocati nei fondali, e collegati tra loro da tunnel per ispezioni tecniche. Poi altri 6 cassoni di spalla, con dentro impianti e tutto il necessario al funzionamento.
Si può sbarrare una laguna? Il meccanismo del “MOSE” ricorda il sistema di dighe composte da cassoni di calcestruzzo affondati nel mare che in Olanda sbarrano la foce della Schelda per proteggere Amsterdam e il polder sotto il livello del mare dal delta dove confluiscono anche Reno e Mosa. Alla foce del Tamigi c’è la Thames Barrier che oppone barriere alte come palazzi di sei piani alle alte maree. C’è la struttura che a San Pietroburgo che ha messo a riparo la città da una violenta tempesta modello 2011. Il progetto di una grande diga marina con cancelli mobili dal New Jersey al Queens, considerato il “Mose di New York”, è stato bocciato, ed era uno dei cinque progetti proposti dall’US Army Corps of Engineers per mettere al sicuro lo Stato di New York dopo l’uragano Sandy del 2012 che fece vittime e danni per 63 miliardi di dollari. A far storcere il naso sono stati costi e tempi per la sua realizzazione, 119 miliardi di dollari e 25 anni di lavori.
In Italia era il 14 maggio 2003 quando iniziarono a mettere in acqua il “MOSE” per la chiusura contemporanea delle tre bocche di porto. Il costo dell’opera avveniristica era nel frattempo lievitato dagli iniziali 3,4 miliardi di euro a quasi 6 miliardi, salendo poi fino a circa 8 miliardi considerando le opere accessorie, compreso il miliardo circa tra fondi extracontabili e schifose tangenti che produssero la vergogna del maxi-scandalo venuto a galla nel giugno 2014, con l’ampio sistema di corruzione, sprechi e mazzette e manette per 35 persone. Partita l’inchiesta, abbiamo visto di tutto: stallo dei mitologici cantieri, abbandono al loro destino delle parti già realizzate che, senza più manutenzione, sono rimaste esposte a deterioramento e corrosione dei materiali, caos di competenze e gestioni con commissari, commissari speciali, ordinari, straordinari.
E arrivò il secondo grande spavento mondiale di martedì 12 novembre 2019, la sera dell’entrata in laguna di acque alte 187 centimetri, la seconda alta marea di sempre, solo 7 centimetri in meno del 4 novembre 1966. La marea granda trovò ancora sola e indifesa Venezia davanti a un Adriatico gonfio, spinto dal forte vento che soffiava a 100 km orari, che sommerse la città per quasi due metri in una nuova alluvione epocale. L’acqua si prese tutto, e lasciò il mondo intero sotto shock. Il “MOSE” era ancora sott’acqua.
Dopodiché accadde che, nella disillusione generale, fissarono al 4 novembre 2019 la prima prova completa di sollevamento di tutte le paratoie alla bocca di porto di Malamocco. Pronti, partenza, via? No, fermi tutti! Test parziali preliminari evidenziarono problemi. La seconda prova ci fu venerdì 10 luglio 2020, coordinata da Elisabetta Spitz, nominata Commissario Straordinario con il compito di sovraintendere alle fasi di prosecuzione dei lavori. Dopo le 11, nelle tre bocche di porto che uniscono l’Adriatico con la laguna, dal fondo del mare le 78 paratoie colossali d’acciaio si sollevarono tra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia venne separata dal suo mare chiudendo le bocche di porto con una serenissima marea da 65 centimetri. E la barriera mobile ha poi resistito a tempeste e fortunali e contro maree più alte.
Ora finalmente sappiamo che è possibile difendere Venezia con la migliore tecnica e tecnologia Made in Italy. Ma sappiamo anche che esperti ingegneri e idrologi chiedono che, trascorsi ormai 57 anni dal 1966, ben 46 dall’avvio del MOSE, 8 anni in più della biblica traversata del vero Mosè con il suo popolo nel deserto, vanno affiancate alle dighe mobili altri interventi che evitino conseguenze sull’ecosistema lagunare come il progetto “Insulae” che prevede perimetri urbani a quote sufficientemente elevate a protezione di abitati, bonifica dei fondali e delle acque, rafforzamento delle fondamenta di Venezia provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, manutenzione di edifici e canali per la migliore resilienza nell’assorbimento dell’impatto dell’acqua alta. La risposta non può essere una, ma è fatta anche di interventi diffusi, integrati. Però tranquillizza e molto sapere che il MOSE c’è, che se ne sta acquattato sott’acqua, e funziona e funzionerà.
© Riproduzione riservata