Ebbene sì, dopo gli ultimi otto anni tra i più caldi di sempre, questo torrido 2023 sarà l’anno più caldo mai segnalato dall’inizio delle registrazioni strumentali avviate a fine Ottocento. Ma l’escalation è senza freni. Se dopo il giugno più rovente pensavano di averla sfangata, lunedì 3 luglio fu annunciato al mondo come «il giorno più caldo mai registrato dal Pianeta» con 17,01 °C di temperatura media globale, superando il record dei 16,92 °C della canicola del 13 agosto 2016. Ma neanche il tempo di una sudata, e 24 ore dopo il record fu stracciato dal rovente martedì 4 luglio a 17,18 °C., e la settimana appena iniziata è classificata dai meteorologi come «subtropicale» e nel prossimo weekend le temperature in zone del centro-sud potrebbero toccare i 45 °C., e su scala nazionale fra 36 e i 42 °C con umidità e afa estreme.

Il trend è questo: è tutta salita, come dimostrano anche le istantanee del calore dell’atmosfera globale catturate e archiviate dai supercomputer dell’U.S. National Center for Environmental Prediction e delle centinaia di stazioni meteo sparse per il globo fino agli schermi della nostra Protezione Civile con Cnr, Ispra, Enea, Italia Meteo. Anche le temperature del Mare Nostrum corrono a una velocità del 20% superiore alla media globale, con ondate di calore prolungate che stanno investendo in pieno la nostra penisola-laboratorio di impatti del riscaldamento globale, toccando il record di sempre con 1,1 gradi in più sulla media. E se non bastassero questi bollenti record, è in agguato l’onda calda di El Niño, che periodicamente provoca aumenti anche di 2 gradi della temperatura dell’Oceano Pacifico centrale e orientale, con ricaschi altrove. El Niño era scomparso dai radar dal 2016, e 7 anni dopo l’Organizzazione meteorologica mondiale rileva la sua riattivazione annunciando effetti planetari dall’inizio dell’autunno con precipitazioni in Sudamerica, Stati Uniti del Sud, Corno d’Africa e in Australia, Asia meridionale e America centrale. L’Italia? Le proiezioni indicano la possibilità che subisca entrambe le conseguenze, speriamo con impatti minimi.

Diciamo subito, tanto per rinfrescarci la memoria, che il cambiamento climatico non sarebbe nemmeno una novità nella lunga evoluzione del nostro amato pianeta che festeggia i suoi 4,54 miliardi di anni. É un trend naturale, se non fosse per la presenza sulla Terra, da circa 3 milioni di anni, di una nuova e particolare specie (quella umana) che per la prima volta sta subendo lo stress di una delle fasi climatiche consuete, quella verso il caldo, dando però una fatale accelerata al rialzo della temperatura per l’invio in atmosfera di gas serra a partire dagli ultimi 150 anni di storia industriale.

Da quando fece la sua comparsa la prima umanità, i periodi di gelo artico hanno avuto durate tra i 40.000 e i 100.000 anni, e le ultime 4 ere glaciali europee sono state l’era Günz da 680.000 a 620.000 anni fa, l’era Mindel da 455.000 a 300.000 anni fa, l’era Riss da 200.000 a 130.000 anni fa, e l’era Wûrm da 110.000 fino a 12.000 anni fa. Ogni era è stata separata dai periodi tropicali da 3 fasi interglaciali, e quella che viviamo è la quarta fase interglaciale destinata a portare la Terra verso il caldo estremo tra qualche migliaio di anni.

Che fare? Tutti gli analisti climatici convergono sui report scientifici dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, la task force indipendente di 2000 scienziati dei centri di ricerca di 195 Paesi istituita dall’Onu nel 1988 con dentro anche i nostri esperti. Nell’ultimo report «Impacts, Adaptation and Vulnerability», e nel prossimo in preparazione, ci sono molti alert per vite umane, acqua, agricoltura, infrastrutture e aree urbane costiere, biodiversità, e avvertono che «le mezze misure non sono più una possibilità». I «grandi emettitori» della Terra sono gli Usa con Cina, India, Russia, Unione europea, Giappone. Con il 49,2% della popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile, con l’Ue che incide per il 12%. Non essendo più realistico l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a fine secolo a 1,5 gradi, la nuova linea del fuoco da non oltrepassare è quella dei 2 gradi, ma le valutazioni scientifiche sul breve termine (fino al 2040), sul medio termine (2041-2060) e sul lungo termine (2081-2100) mettono in evidenza rischi già «irreparabili», con la percentuale di popolazione mondiale esposta a stress da calore oggi del 30% che salirà al 76%; un range da 800 milioni a 3 miliardi di persone che subiranno scarsità di acqua, carestie, fame e migrazioni soprattutto nell’Africa Sub sahariana, Asia meridionale e Centro America.

Servirebbero riduzioni immediate, rapide e su larga scala delle emissioni nei prossimi 20 anni, ma nella trincea a difesa del carbone, petrolio e gas che sarebbe un elemento di transizione, ci sono troppi Paesi del mondo. E l’aggressione di Putin all’Ucraina ha avuto anche l’effetto di fermare le azioni concrete contro quella che non è più solo «crisi climatica» ma «emergenza climatica» come dimostrano i principali indicatori degli ecosistemi terrestri – atmosfera, oceani, ghiacci – che mutano a velocità mai osservate, a partire dall’innalzamento del livello del mare. Un altro rischio colossale che vede la nostra penisola particolarmente vulnerabile, con proiezioni che stimano una media di più 80 cm entro il 2100 e guai per la nostra economia costiera se non attiviamo misure di adattamento con infrastrutture e natural based solutions.

Insomma, mai come oggi bisognerebbe sudare non solo per il caldo che fa ma soprattutto per reagire comunicando una buona volta in positivo tutte le opportunità della reazione corale contro la «pandemia climatica». L’Italia ha tutte le condizioni e le capacità industriali per difendersi e investire e produrre lavoro nelle infrastrutture e nelle tecnologie più innovative, e lo sta dimostrando platealmente anche il MOSE di Venezia, le dighe mobili di difesa uniche al mondo, respingendo le ondate dell’Acqua Granda potenzialmente devastante.

Insomma, sarebbe l’ora di «mettere sul serio a terra» le economie green sostenute dai clamorosi pacchetti finanziari climatici dell’Unione europea, dal Fit for 55 al Recovery Plan al Green Deal Europa che investono 1000 miliardi di euro in grado di svilupparne 3000, e una quota è nel nostro PNRR. Tutto spinge a rinnovare settori industriali ed energetici e i sistemi di mobilità, e le nostre aziende sono tra le più avanzate. Ma le regole della mitigazione e dell’adattamento richiedono anche la correzione del clamoroso errore di aver consentito di mettere in contrapposizione lotta climatica con crescita e occupazione. Su questo si distingue certo il nostro governo che frena e arretra sui piani europei in nome della falsa vulgata di un futuro green di lacrime e sangue, fatto di crolli di asset produttivi nazionali e chiusure di fabbriche e la narrazione degli italiani che finiranno sul lastrico.

Purtroppo l’ignoranza delle opportunità è anche il frutto avvelenato dell’impostazione iper-burocratica delle politiche green europee. Timmermans, tanto per essere chiari, riesce benissimo a comunicare continue prescrizioni, vincoli, aut aut lasciando agitare sullo sfondo scenari di perdite di centinaia di migliaia di posti di lavoro nei settori più energivori e riesce malissimo a comunicare invece le immediate e immense opportunità economiche e ambientali che creano e creeranno tanta occupazione e tante economie in tanti settori da lanciare nella competizione globale con Cina e Usa. E visto che è sulle cose che tutti capiscono che si crea consenso – e quindi su concretissimi piani di occupazione e non su gelidi regolamenti – se il Green Deal europeo dovrà garantire al 2030 il taglio netto del 55% di emissioni, ci sono occasioni da cogliere al volo aumentando le ambizioni. Proprio quelle che terrorizzavano negli anni Settanta in piena crisi petrolifera l’allora sceicco Ahemed Zaky Yamani presidente dell’Opec, che previdente così avvertiva i suoi: «L’età della pietra non finì perché si esaurirono le pietre, e l’età del petrolio non finirà per l’esaurimento dei pozzi di petrolio ma per merito della tecnologia che è il vero nemico dell’Opec».

Erasmo D’Angelis

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