Discontinuità. Una parola scomparsa dal dizionario della politica di colpo, dopo essere stata evocata come fondamento di una operazione trasformistica. Ora si vuole tornare alla normalità pre-covid in ogni settore economico o sociale. Nessuna riforma è all’orizzonte né nella sanità, né nella scuola, né nell’università, né nei consumi (tanto meno nei costumi), né nell’ambiente e nella produzione. Parodiando la abusata frase del Gattopardo si sente ripetere “che tutto torni come prima, presto” e soprattutto si sente la molla della dea pecunia, il denaro della vituperata Europa da sperperare senza controllo per grandi e piccole opere, spesso inutili se non dannose. Due grandi questioni di civiltà, il carcere e il rapporto tra magistratura e politica, sono state accantonate irresponsabilmente. Carcere e giustizia rappresentano un binomio che fa capire molto del potere e dei rapporti di potere nella società. La riforma del CSM si limita a una modifica della tecnica elettorale e a un bizzarro ricorso al sorteggio. Invece di puntare alla qualità si ricorre al caso, evitando le questioni spinose della responsabilità e degli errori.

Il carcere rappresenta il deposito finale di una attività giudiziaria indirizzata alla repressione di questioni sociali come il consumo di droghe vietate in nome di un proibizionismo ideologico, l’immigrazione resa illegale, l’emarginazione sociale e, in ultima analisi, la povertà. Il totem della obbligatorietà dell’azione penale copre le scelte discrezionali per cui i reati dell’articolo 73 della legge antidroga relativi alla detenzione e al piccolo spaccio sono perseguiti in maniera esponenziale rispetto ai delitti contro la persona e il patrimonio. I dati clamorosi sono svelati nell’undicesimo Libro Bianco sugli effetti sulla giustizia e sul carcere del Dpr 309/90 (il decreto sulla droga). Il paradosso dell’Italia è che i magistrati giudicano nelle aule di tribunale, governano il ministero della Giustizia e sono padroni assoluti del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria che determina la vita delle carceri dove sono rinchiusi i condannati. Un potere unico che fa le leggi, condanna e vigila sul regime delle prigioni. Una evidente stonatura a cui si dovrebbe porre rimedio. Lo dico consapevole della qualità che in alcuni momenti storici è stata rappresentata proprio da magistrati che hanno rappresentato una eccelsa classe dirigente. Quando fui sottosegretario in via Arenula con Giovanni Maria Flick ministro, lo staff era composto da Loris D’Ambrosio, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo, Franco Ippolito, Vladimiro Zagrebelsky, Luigi Scotti e altri giovani collaboratori che ora sono in Cassazione (il mio capo segreteria era Giuseppe Cascini) e al Dap responsabili furono prima Michele Coiro e poi Sandro Margara. Se infine ricordo che in Parlamento erano presenti autorevolmente Luigi Saraceni, Elvio Fassone e Salvatore Senese si rischia di essere travolti da un mix di nostalgia e malinconia. Erano protagonisti A Montecitorio e a Palazzo Madama prestigiosi avvocati come Giuliano Pisapia, Guido Calvi e Gaetano Pecorella. Davvero un altro mondo.

Però proprio in quegli anni ci si pose il problema di limitare il numero dei magistrati fuori ruolo nei ministeri e si approvò la legge per assicurare l’accesso degli avvocati in Cassazione, che non era un provvedimento corporativo ma di grande valore simbolico, anche se dispiace constatare che una riforma attesa da tanto tempo sia rimasta sostanzialmente bloccata e inapplicata. Purtroppo anche l’istituzione di una doppia dirigenza, in modo da attribuire i compiti amministrativi delle procure e dei tribunali a personale specializzato e non ai magistrati, è rimasta nel limbo dei desideri. Ma gravissima è stata la ripercussione sulla gestione del Dap che ha visto l’esclusione totale dei laici. Dall’epoca di Nicolò Amato fino a pochi anni fa, uno dei due vicecapi proveniva dalla carriera dei direttori. Nel momento in cui è stato previsto un solo vice, questo ruolo è stato affidato a un magistrato.

Così oggi il Capo del Dap e il suo vice sono magistrati (che siano PM è irrilevante o un eccesso), il dirigente dei detenuti e del trattamento è un magistrato, il responsabile del personale e risorse è un magistrato. È una situazione aberrante e intollerabile. Come ha detto icasticamente Mauro Palma nell’incontro promosso dalla Società della Ragione il 29 luglio per prendere forza dal pensiero di Sandro Margara, il carcere è oggi un luogo vuoto e sordo. Il virus da combattere con intransigenza è quello che cancella i principi della Costituzione, i diritti e le garanzie.