La storia della sinistra comunista e postcomunista è una lunga teoria di negazioni mal riuscite, una vicenda inesausta di faticosi e mai soddisfacenti tentativi di quella sinistra di liberarsi da se stessa, di essere qualcosa rinunciando a essere ciò che è sempre stata e ha continuato a essere lungo un secolo. Si è trattato di negazioni mal riuscite e di tentativi insoddisfacenti perché nessuna fase di quel processo di accreditamento tramite auto-disconoscimento ha mai preso corso spontaneamente e in forza di un’autonoma capacità di iniziativa, ma sempre obtorto collo e cioè su sollecitazione altrui o quando la realtà delle cose squadernava l’inattualità, l’inaderenza, l’inadeguatezza essenziale di quella sinistra rispetto a ogni appuntamento notevole sul percorso civile di questo Paese.

Il Pd non è il Pci ma un osservatore democratico chiederebbe oggi al Pd quel che si è sempre chiesto al Pci: di non essere se stesso. La presentabilità politica e democratica del Partito Comunista avrebbe supposto il sistematico rinnegamento di pressoché tutte le caratteristiche identitarie della tradizione con cui si era giustapposto: lo stalinismo, il rapporto irrisolto con la verità storiografica, la noncuranza per i diritti individuali, la irrevocabile propensione a criminalizzare le democrazie liberali che commettono errori e a giustificare la criminalità dei sistemi illiberali, infine ed emblematicamente la meccanica degradazione del dissenso, dell’idea contraria, dell’impostazione diversa, a realtà delinquenziali o patologiche.

Questo rinnegamento non c’è mai stato, o non è mai stato compiuto, e a colmarne la mancanza è intervenuto, nel solco del solito procedimento contraffattorio, l’assunto secondo cui quel processo non sarebbe stato necessario non perché la tradizione comunista non fosse contrassegnata da quelle caratteristiche, ma perché dopotutto non era veramente comunista (l’avvicendamento delle denominazioni dissociato da qualsiasi progresso culturale effettivo e le serissime dichiarazioni di un personaggio come Walter Veltroni, che di sé dice di non essere mai stato comunista, descrivono in modo esemplare l’indisponibilità di quella storia a comporsi nella verità di un riconoscimento credibile).

Oggi non è diverso. Perché ancora oggi, per il Pd, si tratterebbe di non essere ciò che è. Di non essere giustizialista. Di non essere statalista. Di non essere illiberale. E, soprattutto, di non confondere la sussistenza democratica del Paese con la propria partecipazione al potere, spacciando questa come garanzia di quella con i risultati che vediamo: i diritti individuali devastati, l’amministrazione della giustizia consegnata alla sopraffazione del potere inquirente, i decreti di stampo razzista mantenuti in purezza, la demagogia populista costituzionalizzata nell’esautoramento della democrazia rappresentativa e col trionfo del vaffanculo di piazza che si formalizza nel taglio dei parlamentari. La sinistra offrirebbe un’alternativa al Paese se fosse alternativa a sé stessa anziché competere con il proprio doppio, la componente di destra dell’identico complesso illiberale italiano.