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Il pericoloso gioco sociale degli influencer, tra interessi commerciali e il target appetibile dei giovani

“Io penso che la cultura contemporanea dovrebbe recuperare la cultura greca nell’accezione del limite. Dovremmo essere davvero più limitati. Dovremmo davvero non guardare verso la meta nelle forme del progresso che poi non è progresso come semplice sviluppo. Non dovremmo esagerare nelle nostre manifestazioni: dovremmo mantenere la misura”. Uso queste parole di Umberto Galimberti per introdurre il tema legato alla figura dell’influencer, perché ciò che esprime è quanto di più sideralmente lontano da ciò a cui l’influencer si ispira. Stiamo passando il lento transito dal relativismo etico al negazionismo e – a questa transizione – affianchiamo la dematerializzazione della vita, il distacco dalla condizione di natura, la sostenibilità generazionale e di contesto: questo può essere riassunto nella sovrapposizione del virtuale rispetto al reale.
L’esistenza diventa l’alcova delle mistificazioni, un contenitore immaginifico di illusioni dove la ricerca della felicità crea spazi impensati per questa pedagogia sociale predicata dagli influencer, una professione che nasce dal nulla e il nulla produce: solo affabulazioni, promesse, istruzioni per l’uso, miraggi, modelli personologici costruiti artificialmente, dietro cui si celano interessi commerciali enormi. Perché la sponsorizzazione di tutto ciò che serve per cambiare parte da una insoddisfazione di fondo dalla quale vogliamo affrancarci, costi quel che costi. Chi sono questi apostoli del nuovo? Io non credo pregiudizialmente che siano equivoche figure di demagoghi; probabilmente la maggior parte di loro si crede investita di una straordinaria capacità di convincere, di consigliare, di proporre stili di vita e modelli estetici. Ed è proprio questa incredibile faciloneria, la convinzione autoreferenziale di essere depositari di verità da inculcare – facendo leva sulla potenza della parola – che li rende capaci di penetrare nei comportamenti sociali e di orientarli.
In prevalenza i giovani costituiscono un target commerciale appetibile: resto spesso allibito da quanti seguano e cerchino di condividere i modelli esistenziali promossi dagli influencer. Si parla di migliaia, milioni di follower che adorano i loro maestri di vita e aspirano alla felicità come traguardo raggiungibile. Scuola e famiglia spesso sono scalzate – con i loro modelli educativi tradizionali – dal compito di elargire insegnamenti basati sui valori tramandati. A cominciare dall’uso del pensiero critico, che dovrebbe essere la più importante finalità di una sana formazione, un discrimine tra ciò che è ragionevole e sensato e ciò che diventa terribilmente pericoloso e fuorviante. Stupisce la crescita di questo nuovo mestiere: si parla di ordine professionale, di patentini di expertise, di legittimazioni formali. Qui si rivela tutta la debolezza e il vuoto di valori della società degli adulti, delle istituzioni, della stessa politica. Perché l’influencer può portare consensi e poi voti, perché convince solo attraverso la propria immagine e le parole che creano una sorta di magia ammaliante. Giocano sul connubio con le tecnologie e si diffondono attraverso i social, senza i limiti, senza la misura di ciò che è vero e utile.
Questo mix di parole che mirano a convincere, senza alcun controllo etico che tuteli le coscienze, può diventare un motivo di disorientamento dove si perde la propria identità, fino a estraniarsi dalla realtà. A molti resta tra le mani il distintivo ricordo di una pia illusione. Da sempre l’esplorazione e l’attesa del futuro hanno costituito una fascinazione alla quale è stato difficile sottrarsi. Ma i grandi interpreti dello scandaglio interiore hanno saputo svuotare le aspettative esistenziali dalle vane illusioni. L’attesa è una chimera che non sempre fornisce risposte. Oggi tutto può consumarsi in un attimo, la pienezza esistenziale consiste nel circondarsi di beni e fattezze esteriori. La vita? Un paese dei balocchi dove – come mi ha detto Luigi Zoja – tutti sono malati della sindrome di Lucignolo. Gli influencer lo sanno e alimentano la mistificazione del cambiamento, salvo che si traduca in cocenti delusioni per i follower e in lauti compensi per sé. Per questo mi piace concludere rispolverando dalle reminiscenze letterarie alcune grandi lezioni su cui dovremmo tutti spesso riflettere.
Il venditore di almanacchi – descritto da Giacomo Leopardi nelle sue Operette morali – si arrendeva alla consapevolezza che la rappresentazione del futuro si risolvesse in una vana speranza, peraltro ostentata. In “Aspettando Godot” e in “Giorni felici” di Samuel Beckett emerge l’estenuante attesa di qualcosa o qualcuno che resta indefinito, oltre un nichilismo di fondo nei confronti dell’esistenza umana, il non-senso della parola e l’assenza della comunicazione. Poiché rimane sottotraccia e sbiadito il senso allegorico, semantico e simbolico di un dialogo basato su argomentazioni prive di un significato esplicito: una felicità inespressa in un’infinita allegoria degli impliciti. Nel Deserto dei Tartari – mi piace chiudere con Dino Buzzati – la metafora dell’attesa assume le sembianze struggenti di un dovere da compiere, una missione da portare a termine per dare un senso alla vita.
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