Spostare popolazione civile dove non si combatte
Il piano di Israele non è occupazione: conquistare la Striscia per non lasciare gli aiuti umanitari ad Hamas

Due questioni fondamentali sono state discusse nella riunione di gabinetto che, l’altro giorno, ha portato all’approvazione dei prossimi interventi israeliani su Gaza: un nuovo piano delle operazioni belliche, con diversi moduli di manovra rispettivamente a Sud e a Nord della Striscia, e un nuovo schema rivolto a impedire che gli aiuti umanitari siano sequestrati e affidati al monopolio gestionale di Hamas nell’acquiescenza – quando non con la complicità – delle agenzie delle Nazioni Unite. Queste ultime, non a caso, si sono opposte al programma ipotizzato, rendendo evidente di avere interesse all’assicurazione delle forniture in favore della popolazione civile solo a patto che siano le organizzazioni terroristiche a presidiare – e a distrarre in proprio favore – il flusso degli aiuti.
L’obbligo degli aiuti
Sulla scorta di informazioni smozzicate, e secondo un criterio di pregiudizio sempre più sfrontato, ieri alcuni organi di informazione davano conto della vicenda facendo leva sulle dichiarazioni di un ministro – Itamar Ben-Gvir – contrario al piano di aiuti, privilegiando la notizia di quella isolata contrarietà anziché il fatto rilevante: e cioè, appunto, la decisione governativa – sostanzialmente unanime – di garantire le forniture degli aiuti verso Gaza in base agli obblighi, e anzi anche oltre gli obblighi, di diritto internazionale.
Spostare popolazione civile dove non si combatte
Per voce di un altro ministro poco sorvegliato (Bezalel Smotrich), ha preso poi a circolare un’altra parola – “occupazione” – destinata a contrassegnare, virulentandolo, il dibattito pubblico da qui in avanti. In realtà, tecnicamente, quel termine è improprio perché suppone l’esistenza di uno Stato belligerante che ne occupa un altro; e Gaza non è uno Stato. Ma a prescindere dagli incasellamenti giuridici è chiaro che Israele, nel nuovo scenario, presidierebbe le zone di intervento nel doppio intento di neutralizzare le capacità militari e organizzative di Hamas e di spostare la popolazione civile in zone inesposte alle ostilità. E si noti che questo progetto fu ipotizzato addirittura prima dell’inizio delle operazioni nell’ottobre del 2023, ma fu respinto dalle Nazioni Unite che – già allora – preferirono lasciare che la sorte dei civili di Gaza si mischiasse a quella dei belligeranti (tanto più colpevolmente, peraltro, perché i tunnel proteggevano questi, cioè i miliziani, e non quelli, cioè i civili).
Ostaggi o distruzione di Hamas
La questione più sofferta riguarda, comprensibilmente, gli ostaggi. Non da oggi, per quanto non in maniera tanto esplicita, essa era sul tavolo ufficioso delle alternative. Israele sarebbe stato costretto a scegliere tra la rinuncia alla definitiva neutralizzazione delle capacità offensive di Hamas nell’ambizione di salvare gli ostaggi rimanenti, da un lato, e l’intensificazione delle azioni belliche a costo di mettere in pericolo la vita dei superstiti, dall’altro lato. La suprema e irriducibile necessità di riportare a casa gli ostaggi – specie dopo il cupo teatro allestito dai palestinesi settimane addietro, quando li riconsegnavano nelle bare o ischeletriti, cantando vittoria – si poneva in contrasto lancinante con l’esigenza di impedire che i lombi di una società ancora radicalizzata, pregna di ambizioni genocidiarie e ispirata dal sogno esclusivo di costruirsi e di fiorire sulle ceneri dello Stato ebraico distrutto, generassero un’altra milizia capace di ripetere gli eccidi del 7 ottobre.
A margine di quella riunione ministeriale ci si è aggrovigliati sulle significative distanze tra quelli che imputano all’esercito la liberazione degli ostaggi quale prima missione, e solo in subordine la neutralizzazione di Hamas, e quelli che invece reclamano la prevalenza di uno schema ribaltato nell’idea che solo un’ulteriore pressione su Gaza possa sperabilmente condurre al recupero dei prigionieri ancora nelle mani dei terroristi.
Perché ora
Ma la realtà, appunto, è che Israele – salvi improbabili cambi di scena da qui alla visita di Trump in Medio Oriente, nei prossimi giorni – ha deciso di non poter più rinviare la decisione, e che nel complesso delle emergenze di cui tenere conto e nel bilanciamento dei tanti e gravi interessi in gioco deve rischiare su un doppio fronte. Quello della comunità internazionale, che non sarà in ogni caso appagata dalla ripresa del flusso degli aiuti a fronte dell’intensificazione delle operazioni militari, ma avrà meno potere di intervento se gli aiuti, comunque, saranno assicurati; e quello della controparte belligerante, magari non drammaticamente impensierita dal dover fronteggiare un’offensiva intensa e diffusa ma, certamente, non ringalluzzita quanto lo sarebbe se Israele si ritirasse accettando vaghi accordi che non prevedano l’esautoramento definitivo del potere esercitato da Hamas sulla Striscia.
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