Ma voi la Rete la guardate? Leggete i social? Perché se lo fate (e lo fate!) non trova posto l’ipocrisia di chi inorridisce per gli insulti a Liliana Segre. Che devono o almeno dovrebbero indignare sempre, anzi: sempre di più. Eppure non sono che la punta di quell’iceberg del veleno che circola nel pourparler generale, nella pancia del Paese reale. L’antisemitismo veniva sondato, anni fa, al 14-15% nella mente (bacata) degli italiani. Oggi rilevamenti aggiornati non ce ne sono, forse per carità di patria, ma le tendenze indicano come il raddoppio di quella percentuale sia stata ampiamente ed empiamente superata.

L’antisemita della porta accanto è quello che condanna Israele senza se e senza ma, scendendo in piazza al grido di «Israel must disappear», fingendo di non sapere che la scomparsa del popolo di Israele è stato l’obiettivo fondamentale della Germania nazista e della Russia staliniana. Se negli anni Venti del Novecento si diceva che in segreti riti ebraici venivano sacrificati chissà quanti bambini, negli anni Venti del nuovo secolo si ripete che Israele affama e uccide migliaia di minori.

Dopo aver visto i cortei del 25 aprile aperti da questi slogan, vale tutto: sono saltati tutti i filtri, non più solo quelli politici, ma etici. Di principio. Il problema non è più se e quanti antisemiti ci siano in Italia. È che questa maggioranza silenziosa, ormai autolegittimata, non si vergogna più. Nessuno si vergogna più di dare contro a una donna valorosa e gentile, a una testimone importante e unica come Liliana Segre.

«Quegli insulti sono l’espressione di un diffuso odio antiebraico», certifica Piero Fassino. Con ragione. Ogni giorno è buono per contestare gli ebrei israeliani, ogni giorno c’è chi pensa che il problema della pace in Europa sia l’ebreo Zelensky, ogni giorno leggiamo fiumi di parole sui complotti dell’ebreo Soros contro la stabilità di questo o quel governo. Il fil rouge è quell’atavico odio per un «diverso speciale». Un avvelenamento lento e quotidiano che discrimina chi ha fondato l’Occidente in nome dell’ormai nota, diffusa tendenza al suicidio culturale di massa. Il problema non è più l’antisemitismo in sé, è l’antisemitismo in te.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.