Se c’è un saggista e reporter che conosce da vicino il movimento Black Lives Matter sia nella sua “versione americana” che in quella europea, questa persona è Gary Younge. Per oltre un decennio corrispondente di punta negli Stati Uniti del quotidiano The Guardian, di cui ora è editorialista insieme ad altre testate come The Nation e The New York Review of Books, ha una cattedra di sociologia all’Università di Manchester ed è attualmente visiting professor presso la London South Bank University. Tra i suoi libri ricordiamo Un altro giorno di morte in America: 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi. Younge, ha scelto una data a caso, il 23 novembre 2013, partendo dal presupposto che ogni giorno, in America, vengono uccisi 7 ragazzi sotto i vent’anni da un colpo di arma da fuoco. Soprattutto neri, soprattutto maschi, soprattutto in alcune città, spesso nel silenzio dell’informazione che non riesce più a tenere il conto delle vittime.

Quel giorno di novembre sono stati dieci i ragazzi sotto i vent’anni che hanno perso la vita dopo una sparatoria, un colpo accidentale o un omicidio premeditato. Una storia di stringente, drammatica attualità. Un altro giorno di morte in America è un testo fondamentale, citato spesso in queste settimane, per contestualizzare quanto sta avvenendo oltreoceano, ma non solo, dopo la morte di George Floyd. «Il linciaggio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis, il 25 maggio, è stata una chiara e brutale manifestazione della violenza razzista – rimarca in proposito Younge -. Mostruosità come questa, in cui un criminale con un distintivo e un numero di matricola viene ripreso da una telecamera, sono diventate un fenomeno dolorosamente familiare che rischia di deformare la portata e l’entità della sfida razziale che dobbiamo affrontare. È stato questo episodio a spingere decine di migliaia di persone a scendere in piazza in tutti gli Stati Uniti, innescando talvolta violenti scontri con la polizia, e a suscitare manifestazioni di solidarietà in tutta Europa. Ma l’omicidio di George Floyd non è l’unico motivo per cui il movimento continua. La crisi del coronavirus ha dimostrato che il razzismo uccide in modi molto più subdoli e con numeri di gran lunga superiori senza offrire un gioco di moralità che possa essere condiviso sui social network». Younge è in Italia per partecipare al Festival di Internazionale. Il Riformista lo ha intervistato.

Dagli Stati Uniti all’Europa. Qual è il tratto unificante, la sottile linea rossa che collega il movimento Black Lives Matter in America alla versione europea?
Il tratto unificante è la discriminazione. Il razzismo è un virus resistente che si adatta alla politica del corpo in cui si stabilisce. Non è lo stesso ovunque. Ma il riconoscimento formale dei neri come cittadini alla pari è un concetto relativamente nuovo sia per l’Europa, se guardiamo al colonialismo, sia per l’America, se guardiamo alla schiavitù e alla segregazione. Così i neri, e molti bianchi, in tutto il pianeta possono connettersi all’idea che la vita delle persone di colore non è valutata allo stesso modo di quella dei bianchi.

Una certa narrazione mediatica ritrae questo movimento di protesta come una forma di ribellione senza pianificazione. Non è una visione riduttiva? E se lo è, che idea di società ha questo movimento?
L’esercizio del diritto all’indignazione di fronte a crimini come quello commesso a Minneapolis, e poi in altri episodi analoghi, non è “ribellismo” ma protesta motivata. Quanto alla sua organizzazione, non si tratta di un movimento con strutture e leader classici. Ma questo non significa che non abbia una storia o solidi punti di riferimento. Negli Usa, Black Lives è anche guidato da istituzioni che esistono da più di un secolo, come il NAACP (National Association for the Advancement of Colored People ndr), e da elementi della Chiesa, e fa parte di una lunga tradizione di attivisti dei diritti civili che risale a più di un secolo fa. Il suo obiettivo generale è semplicemente quello di mettere all’ordine del giorno la questione del razzismo sistemico. Non è solo un movimento di denuncia ma ad essa unisce proposte concrete, di carattere legislativo e politico. Ciò che manca è la volontà politica di realizzarle.

Questo movimento non ha un leader. Per alcuni questo è un limite. La vedete anche voi in questo modo?
No. Una volta che hai un leader hai un obiettivo e un potenziale capro espiatorio. In America c’è poi il problema aggiuntivo che i leader delle organizzazioni di colore tendono a essere uccisi. Nel giro di un decennio lo Stato americano, o i suoi surrogati, sono riusciti a spazzare via, in un modo o nell’altro, un’intera generazione di leader. La mancanza di strutture formali ha i suoi punti deboli in termini di capacità di costruire sullo spazio che è stato “ripulito”. Ma dà anche flessibilità e la capacità di agire in modo rapido e creativo, che è quello che abbiamo visto, a volte, durante l’estate.

La crisi pandemica globale, negli Stati Uniti come in Europa, sta aumentando le disuguaglianze sociali. I più svantaggiati sono i più vulnerabili, i più colpiti. Un movimento che lotta contro ogni forma di discriminazione razziale dovrebbe, secondo lei, mettere al centro delle sue azioni anche la lotta contro le discriminazioni causate da Covid-19?
Quando si combatte il razzismo sistemico si includono anche queste cose. Quando dici Black Lives Matter non stai necessariamente limitando le tue richieste a questioni di violenza da parte della polizia. Ma è importante anche non pretendere che i manifestanti con risorse finanziarie limitate si occupino di tutto. Non è un caso, però, che quando il resto della società civile, i sindacati, la sinistra, si occupano di questi problemi – e l’impegno dovrebbe essere ancora più forte e continuativo – includano gli attivisti della Black Lives Matter in qualsiasi coalizione stiano costruendo. È il riconoscimento di una presenza in crescita, in quantità e qualità, del movimento. Il che non fa venir meno la ragione fondante della nascita di un movimento che, almeno in America, si è focalizzato sul problema che gli ha dato vita: la violenza della polizia.

Tra un mese gli americani voteranno per il presidente che li guiderà per i prossimi quattro anni. Quanto possono influire le proteste contro il razzismo e la violenza della polizia sulla decisione di chi sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca? Potrebbero influire molto. La questione di come incideranno, però, è un punto controverso. Normalmente questo tipo di proteste durante una campagna elettorale andrebbe a beneficio di un candidato di destra. Nixon ha vinto nel 1968 promettendo legge e ordine e sostenendo le persone che “giocano secondo le regole”. Ma c’è la sensazione che Trump stia di fatto alimentando la violenza con la sua retorica. Molti bianchi sono a loro agio con il loro privilegio, ma non sono a loro agio con le esibizioni di nudo bigottismo. Quindi penso che sia una questione aperta su come influirà sul risultato.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.