Cos’è successo negli Stati Uniti dopo l’assassinio di George Floyd, di cui scopriamo dai video nuovi atroci particolari? Qual è il significato delle immense manifestazioni antiautoritarie e antirazziste esplose in una miriade di città, e che continuano tuttora? Le risposte a queste domande, almeno in Italia, sono state per lo più schematiche e frammentarie. Abbiamo cercato di capirne di più con il politologo afroamericano Cedric Johnson, autore di Revolutionaries to race leaders: Black Power and the making of african american politics (University of Minnesota Press, 2007). Johnson, professore di Studi Afroamericani presso la University of Illinois a Chicago, si astiene deliberatamente dal dare risposte facili.

Sembra che la straordinaria forza delle proteste sia stata in qualche modo dispersa e indebolita da una certa confusione ideologica, da modelli teorici non all’altezza. In un’intervista a Viewpoint Magazine, ad esempio, un attivista dell’ex area occupata Capitol Hill Autonomous Zone (Chaz) a Seattle ha spiegato che molti manifestanti guardavano con sospetto al linguaggio della lotta di classe…
Per troppi a sinistra vi è stata una sospensione di qualsiasi analisi critica di quanto è accaduto negli ultimi due mesi. Vi è stato un sovrainvestimento del potenziale delle proteste, senza molto dibattito su cosa significassero, quali diverse tendenze fossero presenti, quali di queste fossero reazionarie, progressiste o potenzialmente rivoluzionarie. Questo sentimento è simile alla devozione religiosa. Non sorprende che l’attivista della Chaz abbia fatto quell’osservazione. Ci sono sempre state tendenze politiche di sinistra nelle lotte anti-polizia, dalle proteste della Bay Area seguite all’assassinio di Oscar Grant, sino alla formazione di organizzazioni come Black Youth Project 100 e Assata’s Daughters a Chicago, tra le altre. Allo stesso tempo, molte espressioni di Black Lives Matter sono risolutamente antimarxiste e respingono con durezza la lotta di classe. Insieme all’avversione per un’analisi di classe, ci sono anche forti tendenze politiche antistato che scorrono in talune di queste proteste. Alcune di esse sono buone e necessarie, ma dal punto di vista politico questo sentimento è immaturo e sostanzialmente ci porta a un vicolo cieco. Ci conduce lontano da un tipo di organizzazione movimentista in grado davvero di costruire maggioranze popolari e parlamentari necessarie per ottenere cambiamenti significativi sulla questione della polizia, e a questo riguardo costruire un consenso nazionale su servizi pubblici e socialismo.

I manifestanti dovrebbero dunque insistere di più nel difendere il programma “Medicare for All” di Bernie Sanders?
Ho visto recentemente un cartello nel quartiere “Pilsen” di Chicago, che è a maggioranza messicana, ma negli ultimi dieci anni sta vivendo un intenso processo di gentrificazione. Il cartello riassumeva i più promettenti sentimenti abolizionisti di sinistra e diceva: “Quando i programmi sociali vengono finanziati, quando la gente ha un lavoro, quando alla gente viene pagato un salario di sussistenza, quando le comunità vengono supportate, allora c’è una diminuzione del crimine e la presenza della polizia non è necessaria”. La carcerazione di massa si è trasformata negli ultimi decenni del ventesimo secolo in un sostituto a buon mercato dello stato sociale. Nell’ambito della progressiva neo-liberalizzazione, il ricorso alla polizia e alla carcerazione sono stati una soluzione politicamente efficace e socialmente ingiusta per gestire i poveri in assenza di una generosa spesa sociale. Se ci si libera della polizia, occorre comunque occuparsi del problema sottostante, la diseguaglianza di base. A molti di noi, a sinistra, la campagna di Sanders ha ricordato che è possibile battersi per politiche orientate ai servizi pubblici. Egli ha promosso politiche di sinistra pragmatiche che ottenevano consensi precisamente perché parlavano ai pressanti bisogni della gente indotti dalla neoliberalizzazione, che ha eroso il salario sociale. La sua campagna ha mostrato che molti americani vogliono davvero un sistema sanitario a pagamento unico. Vogliono davvero accedere all’istruzione superiore senza essere gravati dai debiti.

Lo studioso afroamericano Adolph Reed Jr. ha dato una chiara ed efficace definizione di razzismo: ha detto che il razzismo è pensare che le “razze” esistano e non siano soltanto costruzioni sociali. Eppure sembra che una crescente parte della sinistra, nel nome dell’identity politics o dell’intersezionalità, stia ambiguamente riaffermando un “pensiero della differenza” razziale. Questo approccio non rischia paradossalmente di rinforzare l’ideologia suprematista bianca?
Credo di sì, specialmente nel modo in cui pensiamo alla vita politica. Abbiamo già assistito al risorgere di una concezione biologica della razza, per cui il test del Dna è ora diventato un metodo normale per compiere ricerche genealogiche, anche se gli scienziati più progressisti hanno criticato questa pratica specialmente per come sperimenta e legittima convincimenti razzisti sulla discendenza, sulla linea di sangue e sulla diversità umana. Allo stesso modo la pandemia ha infuso nuova linfa vitale alla ricerca medica razzializzata, che va oltre alla semplice identificazione di disparità razziali ed etniche empiriche fra la popolazione e arriva ad affermare che diversi gruppi avrebbero bisogno di terapie specifiche a seconda della razza. Questo è un terreno pericoloso, specialmente perché è stato adottato con tanta facilità da molti della sinistra. Inoltre questa tendenza a pensare alla diseguaglianza in America primariamente attraverso letture essenzialiste della razza non ci aiuta a capire come funzionino le pratiche di polizia e le loro sottostanti dinamiche di classe, al di là del teatro urbano delle proteste di Black Lives Matter. Queste nozioni oscurano le più ampie dinamiche nazionali di polizia e carcerazione, che sono largamente sperimentate dagli strati più sommersi della classe operaia di tutti i colori. Soffermarsi sulla razza, inoltre, divide i cittadini, erige barriere non necessarie tra possibili alleati e rende poco chiara la logica essenziale delle pratiche di polizia, tenendo queste ultime separate dalla conservazione di fondo dell’ordine capitalista. Non dobbiamo negare dei fatti come quelli del razzismo e della gerarchia razziale negli Stati Uniti, ma ci occorre un’analisi che evidenzi quanto le pratiche aggressive di polizia siano connesse alla riproduzione dell’economia di mercato, allo sviluppo immobiliare e alla gestione della sovrappopolazione.

Molti monumenti sono stati rimossi o danneggiati: non solo brutte statue confederate, ma anche ritratti di George Washington, Thomas Jefferson, Gandhi o Cristoforo Colombo.
Alcune di queste rivendicazioni sono da tempo necessarie e riflettono i reali mutamenti demografici in corso, già manifestatisi nelle città più grandi e multiculturali. Altre però sono fuori luogo, come gli inviti a rimuovere le statue dei presidenti Abramo Lincoln e Ulysses S. Grant. Lincoln era noto ai tempi del suo assassinio come il “Grande Emancipatore” perché aveva messo fine alla schiavitù; Grant, il generale vincitore dell’Unione, ha presieduto al breve ma grandioso periodo della Ricostruzione, quando gli ex schiavi neri liberati hanno beneficiato di alcune misure di autonomia politica ed economica e hanno eletto rappresentanti neri a cariche pubbliche locali e nazionali così come al Congresso. Entrambi gli uomini erano visti in modo eroico dagli ex schiavi neri liberati dopo la Guerra Civile, a tal punto che una delle statue di Lincoln a Washington che gli attivisti vogliono ora demolire fu in realtà pagata da degli ex schiavi. Alcuni dei monumenti dovrebbero essere rimossi, altri dovrebbero rimanere, ma politicamente tutto ciò è anche una distrazione. Dovremmo concentrarci nel contestare la classe dominante viva e vegeta e gli oneri che impone al nostro lavoro, alle nostre vite e al nostro pianeta. Non opporci a generali confederati e a imperialisti morti da tempo.