Il festival di Venezia
Il signore delle formiche di Gianni Amelio, la drammatica vicenda di Aldo Braibanti
Lasciati alle spalle i deliri delle folle urlanti per Harry Styles, protagonista di Don’t Worry Darling, film diretto da Olivia Wilde e presentato fuori concorso, la 79esima Mostra del cinema di Venezia dedica il suo settimo giorno al penultimo italiano in concorso su cinque selezionati: Il signore delle formiche di Gianni Amelio. Ambientato alla fine degli anni 60, il film racconta una pagina buia della storia d’Italia, il processo all’intellettuale e poeta Aldo Braibanti, condannato a nove anni di reclusione con l’accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. La storia d’amore di Braibanti con un giovane ventiquattrenne, fu osteggiata dall’opinione pubblica e il reato di plagio, all’epoca ancora in vigore e mai utilizzato, fu usato ad hoc per riuscire a incolpare il poeta di un crimine poiché al tempo non si poteva accettare che una relazione gay avesse il consenso di entrambe le parti e non fosse, dunque, abuso. Ad interpretare Braibanti, il maestro de La tenerezza Gianni Amelio sceglie Luigi Lo Cascio e gli affianca l’esordiente Leonardo Maltese. Nel ruolo di fantasia di Ennio, un giornalista de l’Unità, una delle poche voci fuori dal coro nella vicenda e disposto a raccontare le cose come stavano, Elio Germano.
Alla conferenza stampa ufficiale Gianni Amelio ci arriva commosso e carico per il film che ha fatto. «Ho sentito la necessità di raccontare la vicenda di Braibanti – spiega – perché è una macchia nera nella storia italiana per l’ingiustizia palese della condanna», «I diritti umani sono in pericolo – ha continuato il regista – Non è una malattia essere omosessuali e chi fa le leggi deve tutelare la libertà di ciascuno». Nel suo passato Amelio ricorda i pregiudizi contro gli omosessuali: «Non dimenticherò mai una frase che sentii quando avevo 16 anni: “Un omosessuale o si cura o si ammazza”». Il regista mostra di non amare molto convenevoli e frasi fatte: «Non voglio essere a tutti costi quello che smonta anche la retorica di certe situazioni ma la conferenza stampa bella è quella sincera, non è quella paludata», premette. «Un giorno arriva una telefonata di Marco Bellocchio – prosegue il regista – che mi invita nel suo ufficio di produzione che ha un solo difetto, sta sulla Nomentana. Vado e mi propongono un documentario su Aldo Braibanti. Mi consideravano uno specialista della materia perché ho fatto un film dal titolo Felice chi è diverso e per quell’occasione avevo chiamato Aldo e ci eravamo parlati tante volte. Avevo trovato dei documenti non eccezionali su di lui che riguardavano il suo interesse per le formiche e poi basta. Ho detto, “grazie, non lo posso fare” ma ho rilanciato con l’idea di fare un film». Conclude poi il racconto Amelio: «Il giorno dopo ricevo un’altra telefonata del produttore Simone Gattoni che mi dice: “facciamo un film, si chiamerà Il signore delle formiche”».
Si confessa con il cuore Gianni Amelio e per farlo si mette a nudo, scoprendo, nel dialogo con la stampa, il segreto di tanto coinvolgimento nelle vicende da lui narrate: «Il film sarà bellissimo, avrà il suo cammino di cui sono felice, lo seguirò dovunque però non sono felice – ammette – vi auguro di essere più felici di me». Sulla scia di questa dichiarazione, la parola passa al protagonista del film, Luigi Lo Cascio che si è calato nei panni dell’intellettuale perseguitato ed ha dovuto comprendere nel profondo il perché dei comportamenti del poeta. Braibanti non si difese da subito, esitò, riempì molte delle udienze sul suo caso con prolungati silenzi fino a quando, finalmente, decise di rispondere alle accuse. «Non so se ho trovato questo personaggio – dice – ma l’ho cercato con molta passione e continuo a cercarlo perché da certi punti di vista è stata una persona e un personaggio dentro un film enigmatico, ha dei punti, stranamente, che sembrano in contrasto tra loro. Da una parte la grandezza, le sicurezze e le certezze che ha all’interno del suo campo d’azione e quindi dell’arte e dall’altra parte, le sue fragilità derivanti dal fatto di essere in una relazione. Imputato per plagio, un filosofo, uno che ha una capacità di linguaggio molto forte e che ha idee chiare sulla sua innocenza ma quando può dire la sua, soprattutto inizialmente sceglie la strada del silenzio. Questo elemento mi ha molto colpito e la ricerca delle motivazioni che potevano spingerlo a questa scelta mi ha molto appassionato».
Vista la confusione che dilaga in sala sul significato della sua dichiarazione di infelicità intanto, il maestro Amelio si affretta a chiarire: «Quando ho detto che sono infelice non mi riferivo al mio rapporto con il film ed al film ma può capitare che facendo un film si viva in un certo modo e ci siano delle fragilità che professionalmente io non ho, ma umanamente sì. Il lato che Luigi ha scoperto in Braibanti, io l’ho scoperto in me stesso. Ho vissuto durante il film una storia d’amore molto tormentata. Questo tormento non passa e forse, se il film è bello, lo si deve anche a questo». Attraverso la figura del personaggio interpretato da Elio Germano, il giornalista Ennio, Amelio ci ricorda che un altro giornalismo è possibile, che si può fare la differenza nel cercare la verità a tutti i costi e si possono rispettare le persone e condurre inchieste valide allo stesso tempo. «Diciamo che penso il film ci parli di tante cose: viene definito plagio il suo amore – commenta Germano – e viviamo un’epoca dove la passione è sconveniente, oggi è conveniente il profitto, la finalità di un’azione. Chi fa il proprio lavoro, anche con passione, ha una vita più difficile di chi lo fa per arrivismo, interesse personale. Nel mio personaggio si vive questa contraddizione che è molto contemporanea. Non si fa fatica a riconoscersi nella precarietà di un lavoro che deve essere fatto in tutti i modi tranne che con passione, soltanto obbedendo al principale e possibilmente sgomitando con i propri colleghi in ottica di scalata sociale e senza sentire che il proprio mestiere è un modo di contribuire alla collettività. Questo riguarda tutti e non solo il mestiere di giornalista ed è il responsabile del decadimento morale e qualitativo del nostro paese».
Come dialoga Il Signore delle formiche con gli altri film del regista? È lo stesso Gianni Amelio a trovare il fil rouge tra le sue opere: «È chiaro che c’è sempre lo scontro e l’incontro tra due generazioni nei miei film. È cominciato in un film che nessuno di voi ha visto, lo giuro, La Città del sole, avevo 27 anni. Era un film sul filosofo Tommaso Campanella e ho sentito il bisogno di mettergli di fronte un contadinello ignorante. Molti poi, nel caso di Hammamet, abbagliati dalla bravura sovrumana di Favino, hanno dimenticato che il film era anche un incontro-scontro del politico con il ragazzo, Fausto. In tutti i miei film c’è questo discorso che qui è anche trascinato da quello che io non considero solo un ragazzo di grande talento ma un miracolo, il mio miracolo, Leonardo Maltese e soprattutto da come lui e Luigi Lo Cascio si guardavano fin dal primo giorno di riprese». «Ho costruito qualcosa che non ci si aspetterebbe da un film che sarà etichettato sul caso Braibanti», immagina Amelio. Che conclude: «È limitativo dire che questo è un film sul caso Braibanti, è una grandissima storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica».
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