L'editoriale
Il virus ci rende obbedienti, ma l’ombra della globalizzazione rischia di offuscare la libertà
Il mondo globale contiene promesse e minacce, è un misto di queste due cose che si abbattono spesso insieme, con effetti opposti, su una realtà stracarica di differenze, eppure anche globale: un rapporto tra contrari, senza una dialettica capace di conciliarli. È un quadro destinato a mutare le categorie consunte di una vecchia storia ancora accumulate nel nostro cervello e, insieme, destinato a una difesa sperabilmente critica di ciò che siamo. Le entità globali si muovono nei tempi lunghi o in tempi istantanei, il virus è tra questi ultimi. È stato sufficiente, come ormai dicono gli scienziati che, nel mercato di animali selvatici di Wuhan, avvenisse qualcosa come un contatto, o un acquisto a base di pangolini, perché lì, in quell’attimo anonimo e fuggente, iniziasse qualcosa che somiglia alla distruzione del mondo.
Esagero, ma ci intendiamo. La fantascienza aveva visto lungo; è essa, almeno in una certa misura, la “scienza” del mondo globalizzato. Altro che minaccia nucleare! Questa ha il controllo della storia, il virus è natura, vita invisibile che vuol riprodursi. Prendiamo così coscienza di un fatto nuovo e sconvolgente che il globalismo rende dappertutto sincronico. Siamo così preda di una pandemia che accelera.
In un istante (si fa per dire, ma è quasi così) abbiamo perduto tutto il nostro patrimonio di libertà personali, e abbiamo confusamente afferrato che la nostra idea di libertà, nata e cresciuta nella storia d’Europa tra mille lotte e guerre, e pure tra immense opere di una civiltà-mondo, si deve ora misurare con quel mondo globale cui ho fatto velocemente cenno. Che cosa si deve conservare e che cosa muta? Ecco un dilemma su cui iniziare a riflettere.
La cosa non riguarda immediatamente l’obbedienza alle regole, anche se nei casi appena più sofisticati appare difficile capire qual regola sia vigente, ma questa è inettitudine dei governanti e per fortuna vedo che in giro c’è ancora uno spirito critico che non demorde per portarla a luce. Ma, ripeto, non è in dubbio l’obbedienza, e questo sulla base di ciò che si chiama etica della responsabilità, un bel prodotto della cultura dell’Occidente, Max Weber autore consacrato di essa. L’obbedienza è il prodotto del comportamento di un uomo liberato ad opera di una civiltà nella quale, in punto di principio, la responsabilità viene prima della libertà.
Ci viene inviata, per dir così, una entità ignota e invisibile, non un sovrano assoluto contro il quale armare la nostra libertà civile e politica. Il mondo globalizzato ci ha riversato addosso un’entità che entra nel nostro corpo più di qualunque diktat di un Fuhrer, si chiami anche Hitler. Non date retta a quei filosofi che negano questo, e si mettono su un crinale pseudo-eroico abbaiando alla luna. Non è così che si difende la libertà.
Piuttosto è il momento per riflettere su quella domanda che ho posto all’inizio, sul rapporto tra la nostra libertà, che ha una profonda verità storica alle spalle, la libertà delle libertà plurali, e il mondo globale. Come essa riesce a modificarsi senza negarsi? Non parlo dell’ovvio ripristino di ciò che c’era, appena possibile, ma del suo problematico futuro. La si rinchiude nei vecchi confini? L’idea non convince, i confini sono porosi non solo per i virus. Il confine ormai è il mondo, come mai prima; abbiamo sott’occhio la cosa, e perciò mutano i parametri.
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