Quello che successe 1918 e il 1920 con la furia della febbre cosiddetta spagnola che uccise più del doppio dei morti nelle due guerre mondiali, è stato completamente rimosso e dimenticato. Anche perché quando quella febbre arrivò addosso ai soldati americani che si erano infettati nei campi di addestramento del Kentucky prima di salire sulle navi che li avrebbero sbarcati in Francia per combattere a fianco degli inglesi e dei francesi il nemico tedesco,
i comandi militari di tutte le nazioni in guerra furono d’accordo nel decidere che le notizie sulla epidemia non dovessero essere date in pasto alla stampa e l’opinione pubblica e fu così che essendo la Spagna uno dei pochi paesi fuori dal conflitto, chi per caso lesse i giornali spagnoli apprese da quelli che nella penisola iberica infuriava un morbo sconosciuto dal resto del mondo appunto era esattamente il contrario: il resto del mondo aveva il morbo e il morbo aveva infettato anche la Spagna prima di devastare l’Africa, l’Asia, l’Australia e poi tornare rinvigorito nel Sud America e finalmente negli Stati Uniti da cui aveva avuto origine.

Le notizie su quella peste di un secolo fa furono vietate con la censura militare in tutti i paesi che avevano combattuto da una parte o dall’altra la grande guerra anche dopo la fine della guerra. Mentre erano in corso le faticose trattative di Versailles la peste colpì anche il presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson che nel 1919 si era trasferito a Parigi. Wilson aveva portato in Europa la sua utopistica idea di assicurare a ogni etnia una patria e una bandiera, cosa che provocò reazioni violente e truculente, rivolte, rivoluzioni, massacri, pogrom, colpi di Stato nei paesi che, come l’Italia, erano entrati in guerra soltanto per ottenere vantaggi territoriali, asfaltando la strada di Mussolini e di Hitler per ragioni inverse e coincidenti. Il presidente americano si ammalò gravemente di febbre spagnola, che gli provocò un ictus e un’ischemia per cui al risveglio dopo una incerta guarigione si ritrovò orribilmente diverso.

Lo racconta l’economista Keynes che faceva parte della delegazione inglese alle trattative di Parigi e che fuggì scandalizzato scrivendo in un libro la facile previsione: l’intervento di Wilson a sostegno del primo ministro francese Clemenceau che voleva lo smembramento dei popoli di lingua tedesca caricati di un debito insostenibile che conteneva anche il costo delle pensioni militari del Regno Unito oltre al mantenimento del distaccamento militare francese che occupava mezza Germania in cui si moriva letteralmente di fame per strada come accadde col raffreddamento anomalo del XIV Secolo, avrebbe certamente portato a una nuova guerra. Quello dell’epidemia e della follia di Wilson e delle reazioni popolari fu un caso non casuale, utile per dare un’idea di come le epidemie possano determinare gli eventi umani. L’assetto del mondo così come ci appare sotto gli occhi oggi è pervaso da una sua interna complessità che pochi sembrano in grado di volere affrontare, chiarire appunto, prima che una nuova catastrofe pandemica e bellica si abbatta sull’umanità del nostro secolo. Quel che sta accadendo alle frontiere bielorusse e polacche e in Lituania da una parte e il forte rialzo delle corde vocali dei colloqui via Internet tra Putin e Biden promette guerra. L’atteggiamento giustamente inflessibile ma altrettanto rischioso dell’Unione Europea anche.

Le parole del presidente cinese non sono da meno, così come quelle del governo di Canberra. Così come quelle del governo di Tokyo. Così quelle del governo indonesiano. I venti di guerra hanno soffiato tante volte nel corso degli ultimi ottanta anni ma poi si sono spenti senza che il fuoco si accendesse. Negli anni Ottanta si dava per scontata la guerra fra Unione Sovietica e Cina comunista lungo la frontiera del fiume Ussuri che poi non ci fu. Ma altre cento piccole e medie guerre hanno corroso la pace e la percezione della differenza fra pace e guerra. Nessuno è in grado di dire come andranno le cose, ma nessuno sarà neppure in grado di dire come si svilupperanno sentimenti e risentimenti e quali “capri espiatori” verranno chiamati sull’altare del coltello e del fuoco.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.