Per decenni è stato al centro dell’interesse internazionale. Ora sul conflitto israelo-palestinese sembra essere calato il silenzio mediatico. Laura Boldrini, parlamentare dem e presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo è appena tornata da una missione in Israele e Palestina.
Che situazione ha trovato?
Ho trovato una situazione di grande instabilità, i rapporti tra israeliani e palestinesi sono molto tesi. Gli attentati e gli scontri degli ultimi mesi hanno provocato decine di morti da entrambe le parti, producendo l’effetto di un serio inasprimento delle relazioni e un’altra escalation del conflitto. Un clima di tensione che ho percepito visitando i territori occupati della Cisgiordania come Hebron e Masafer Yatta oppure incontrando le persone a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme est, dove le famiglie palestinesi che vi abitano da decenni rischiano di perdere le proprie case a causa di dispute legali non risolte sulla titolarità delle terre. Inoltre nel quartiere vi sono pure famiglie i cui componenti non escono mai di casa tutti insieme per timore che al ritorno la trovino occupata da un colono. Lo status di Gerusalemme è infatti una delle priorità da affrontare, insieme alla titolarità delle proprietà, agli insediamenti dei coloni e ai permessi di residenza, che i palestinesi rischiano di perdere se si trasferiscono e non rientrano in città entro 5 anni. Per abbassare il livello di attrito tra i due popoli, questi sono alcuni dei nodi da sciogliere.
In Terra Santa c’è ancora spazio per il dialogo?
Ho fatto questa visita con associazioni israeliane e palestinesi che stanno dalla stessa parte e affermano gli stessi concetti: fine dell’occupazione dei territori palestinesi, stop agli sfratti forzati, riconciliazione. Esiste infatti una società civile israeliana e palestinese che lavora per gli stessi obiettivi, consapevole che non ci sarà mai l’affermazione del diritto alla sicurezza né per gli israeliani né per i palestinesi se non si procede in questo senso. Realtà che vanno valorizzate e sostenute. Inoltre la comunità internazionale ha la responsabilità di impegnarsi tornando a giocare un ruolo chiave nel dialogo tra le parti. I fattori di instabilità globale sono diversi e non vanno sottovalutati, come nel caso del Medio Oriente. Bisogna fare di più per spingere Israele a interrompere l’occupazione illegale dei territori palestinesi e fare un passo indietro sull’annessione di Gerusalemme est, che è insostenibile oltre a non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite e dalla maggior parte degli Stati, Italia compresa. Anche in Cisgiordania l’occupazione produce solo effetti negativi. Sono stata a Masafer Yatta, nella firing zone 918, dove le autorità israeliane hanno deciso di realizzare un poligono di tiro mandando via la popolazione che vi abita. Scelte del genere come potranno mai portare ad affermare il diritto alla sicurezza dei cittadini israeliani? Non è così, insediando nuove colonie in Palestina e scacciando chi ci vive per far posto ad altri, che si ottiene la pace. Al tempo stesso i palestinesi devono isolare sempre di più quei gruppi che anche recentemente hanno messo in atto azioni terroristiche violente. Ed è molto importante che si giunga quanto prima alle elezioni più volte rinviate dell’Autorità nazionale palestinese.
Per anni si è ripetuto che una pace giusta e duratura deve fondarsi sulla soluzione “a due Stati”. Ma a fronte della massiccia e inarrestata colonizzazione della Cisgiordania da parte israeliana, questa soluzione è ancora praticabile o è un ipocrita mantra salva coscienza per quelli che chiudono gli occhi di fronte alla realtà?
La formula “due popoli, due Stati” resta l’unica soluzione per la fine di questo lungo conflitto. Bisogna abbattere il muro di ostracismo che esiste, affermando il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, trovando una sintesi condivisa per lo status di Gerusalemme e riconoscendo lo Stato di Palestina. Si dia concretezza alla risoluzione Onu del 1948 che contempla appunto due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese. Uno si è fatto, l’altro no.
A Gerusalemme, lei ha incontrato il fratello di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese di al-Jazeera, uccisa a Jenin. Le autorità giudiziarie militari israeliane hanno sentenziato che il caso è chiuso…
Anton Abu Akleh le idee chiare: perché sia fatta giustizia per l’uccisione della sorella serve l’apertura di un’inchiesta internazionale indipendente che stabilisca con oggettività le responsabilità della sua morte. Questo anche nell’interesse della libertà e della sicurezza dei giornalisti che lavorano in Cisgiordania, auspicando che la tragica scomparsa di Shireen scuota le coscienze e faccia comprendere agli Usa e all’UE l’urgenza di rilanciare il negoziato di pace abbandonato da troppo tempo.
Prossimamente, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sarà in visita ufficiale in Israele. Cosa si sente di chiedergli?
Auspico che il capo del governo italiano riesca, nei suoi incontri e colloqui con le autorità israeliane, a fare la giusta pressione per sbloccare la situazione di Gerusalemme e fermare la colonizzazione della Cisgiordania. Lo stesso è bene che faccia il presidente Joe Biden che a luglio si dovrebbe recare a Tel Aviv e Ramallah.
Perché l’Italia continua a evadere il riconoscimento di uno Stato palestinese?
L’Italia si è storicamente impegnata per il processo di pace e a difesa dei diritti del popolo palestinese. Con il passare del tempo però questa collocazione è apparsa affievolirsi. Eppure abbiamo avuto in Israele governi di destra, come quello di Netanyahu, che hanno fortemente compromesso il processo di pace e i diritti dei palestinesi. Spero proprio che l’Italia recuperi un ruolo di dialogo attivo con entrambe le parti.
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