Il Memorandum Italia-Libia, l’esternalizzazione delle frontiere e i guasti prodotti. Il Riformista ne discute con Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Partito democratico, neo rieletta parlamentare.

Domani, 2 Novembre, il Memorandum d’intesa Italia-Libia verrà rinnovato automaticamente, nonostante l’appello di oltre 40 organizzazioni della società civile a cancellarlo. Non la ritiene una sconfitta politica grave?
La gestione dell’immigrazione deve avvenire in modo legale e sicuro. Fondamentale per questo obiettivo è il dialogo e anche gli accordi con i paesi di provenienza e di transito. Con questa finalità, nel 2017 l’Italia stipulò con le autorità libiche un Memorandum sul contrasto al traffico di esseri umani. Il Memorandum è stato parte di una strategia necessaria volta a regolare la gestione degli arrivi in Italia dalla Libia che però ha mostrato notevoli lacune sul fronte delle condizioni di vita dei migranti in Libia: le autorità libiche non sono mai riuscite, nonostante le sollecitazioni e gli aiuti delle organizzazioni Onu e anche dei governi europei, a gestire i migranti in Libia, e di fatto li hanno detenuti in veri e propri campi di detenzione dove sono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Per questo, nel 2019, al momento del rinnovo, con Laura Boldrini come Pd chiedemmo al governo italiano – allora era presidente del Consiglio Conte – di avviare un dialogo con le autorità libiche per renderne più stringente l’applicazione relativamente al rispetto dei diritti umani e al contrasto ai trafficanti. Fu faticoso chiedere un impegno italiano per le modifiche: il M5s era contrario anche al fatto che il Parlamento avanzasse questa richiesta. Il governo Conte – e poi il governo Draghi – non sono riusciti a modificare il memorandum. Vuole dire o che le autorità libiche non condividono la necessità di una collaborazione con l’Italia in questa materia o che l’Italia non è in grado di influenzare la direzione della collaborazione. Senza la collaborazione delle autorità libiche il governo italiano, di qualsiasi colore, non è in grado di gestire i flussi in arrivo dalla Libia. Non ottenere risposte quando si chiede di valutare insieme l’efficacia della collaborazione è un dato che meriterebbe una riflessione politica approfondita, non un tacito rinnovo. A maggior ragione quando così tante cose sono cambiate in Libia dal 2017 a oggi, a partire dal peso che hanno acquisito in quel paese Russia e Turchia.

Dal 2017 ad oggi, i 5 anni del Memorandum, quasi 100mila persone sono state intercettate in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia, nei lager che sappiamo. La Guardia costiera libica è stata finanziata dall’Italia per fare il lavoro sporco al posto nostro. È la politica dell’esternalizzazione delle frontiere.
Esternalizzare la gestione delle frontiere ha spesso coinciso con un approccio che portava i paesi di destinazione a lasciar fare ai governi dei paesi di provenienza e transito, in cambio di compensazioni economiche (come ad esempio con la Turchia). Ci può essere un altro approccio, che però richiede attenzione e apprendimento continui. È l’approccio che porta a collaborare tra Stati per la gestione delle migrazioni: questo vuole dire dialogare, prendersi responsabilità comuni, cooperare per la gestione di un fenomeno complesso e di lungo periodo. Collaborare e esternalizzare sono atteggiamenti diversi. L’approccio collaborativo è più completo. Ciascuno Stato ha il dovere di gestire i flussi di chi attraversa i propri confini, seguendo le Convenzioni internazionali di cui fa parte. Tutti gli Stati hanno il dovere di collaborare a questi sforzi. Un esempio della differenza? A luglio il Pd ha votato contro il rifinanziamento della missione a sostegno della Guardia costiera libica: abbiamo giudicato insufficiente la reattività della Guardia costiera libica a precise contestazioni italiane e di organizzazioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e sulla reale volontà di contrastare i trafficanti di esseri umani. Si collabora, ma se la collaborazione non funziona la si rivede e eventualmente la si interrompe. In questo approccio di collaborazione, l’Italia non dovrebbe mai mancare di porre sia a livello europeo che a livello Onu la questione delle migrazioni in Libia. Certo, il nuovo governo deve fare attenzione agli argomenti che usa e ai toni che impiega: quando la Lega e il M5s hanno scelto, su pressione di Fratelli di Italia, di non ratificare il Global Compact per le migrazioni dell’Onu hanno reso l’Italia meno credibile nel chiedere un governo globale delle migrazioni e maggiore solidarietà dagli altri stati; mentre ogni sparata razzista dei partiti della destra allontana la possibilità di collaborare con i governi africani, che sono partner imprescindibili per evitare le partenze e stroncare i traffici. Inoltre, le alleanze in Europa di Meloni sono proprio con quei paesi che non vogliono un governo europeo delle migrazioni. Insomma, la gestione delle migrazioni a livello globale, se vuole essere qualcosa di diverso dall’esternalizzazione delle frontiere, richiede una saggia politica europea e estera che in questa maggioranza non vedo.

Porti chiusi, navi delle Ong nel mirino del duo Salvini-Piantedosi. Il governo appena varato ha dato inizio alla battaglia navale. E la sinistra?
Ho ascoltato con attenzione le parole che Meloni ha scelto durante il suo discorso di insediamento per parlare di immigrazione. Non ho notato un cambiamento di impianto rispetto all’approccio di Salvini ministro dell’Interno. Solo la scelta di un linguaggio più istituzionale. Sogno il momento in cui in Italia si possa discutere di migrazioni come di una grande questione strategica nazionale – come si fa ad esempio con la politica estera – non come della risposta a un’emergenza o di una battaglia ideologica. In questo senso ha sbagliato sia chi da destra proponeva una ricetta semplicistica e irrealizzabile come l’immigrazione zero, sia chi da sinistra era contro la regolamentazione degli ingressi. Lo scontro tra questi due approcci ha fatto sì che per troppo tempo abbiamo ignorato i numeri del fenomeno nel suo complesso, limitandoci a ragionare solo sugli arrivi dalla Libia. In Italia entrano legalmente ogni anno con il decreto flussi meno di 30mila persone. Illegalmente ne entrano molte di più, poi regolarizzate in sanatorie fatte da tutti i governi. Possiamo discutere di come dare regole certe, eventualmente selettive, per l’ingresso legale in Italia della manodopera di cui c’è bisogno? È così che si ampliano i flussi di ingresso legale stroncando parallelamente gli ingressi illegali. Possiamo discutere di come si crea buona integrazione, lavoro buono, di come si superano i conflitti che la convivenza tra comunità di lingua e religione e cultura diversa comportano? Da Meloni non ho sentito una parola su questo, e anche la sinistra in questi anni ha ragionato più sulla modifica della legge della cittadinanza che sulle politiche per favorire l’integrazione. Le leggi, i diritti servono, ma servono risorse e attenzione politica per governare nella quotidianità l’immigrazione. Dall’altro lato c’è l’emigrazione. Sono circa 80mila i ragazzi e le ragazze italiane che decidono ogni anno di trasferirsi stabilmente all’estero perché non trovano una strada per affermarsi nel nostro paese. Possiamo ragionare insieme, maggioranza e opposizione, su come permettere a questi ragazzi e ragazze di fare esperienza all’estero, eventualmente avendo la possibilità di tornare in Italia? Sarebbe opportuno ragionare sulle migrazioni sia in entrata che in uscita partendo da questi fatti, non dai tweet di Salvini. Se Meloni volesse davvero essere una leader conservatrice e pragmatica, dovrebbe partire da qui. Tutto il paese ne trarrebbe giovamento.

Nel suo intervento alla Camera, lei ha ricordato alla neo premier Meloni che c’è una famiglia che attende ancora verità e giustizia sull’atroce morte del figlio. È la famiglia di Giulio Regeni.
Quasi sette anni fa veniva ucciso in Egitto un cittadino italiano, Giulio Regeni. Le indagini della magistratura italiana hanno svelato che Giulio è stato torturato e ucciso dalle forze di sicurezza egiziane. Non si può dire, come ha fatto Meloni nel primo colloquio con il presidente egiziano Al Sisi, che dobbiamo rafforzare la cooperazione sui diritti umani con l’Egitto. Perché nel caso di Giulio Regeni questa cooperazione non c’è mai stata. Ho ricordato la figura di Giulio perché la politica estera italiana non può essere fatta solo per difendere gli interessi commerciali del nostro Paese, che pure ci sono. Uno Stato che non è in grado di proteggere un suo cittadino all’estero o di ottenere giustizia sulla sua morte, è uno Stato che perde credibilità e affidabilità. Un paese si giudica anche da come sa reagire a circostanze come queste. Anche su questo vorremmo vedere Meloni difendere l’onore della patria.

Enrico Letta ha evocato un partito “pugnace”. Su migranti, Libia, pace e guerra, come declinerebbe questo aggettivo?
Un partito che recupera credibilità sulle battaglie che sceglie e che sa usare buoni argomenti per sfidare il governo e convincere l’elettorato che non ci ha votato. L’opposizione deve essere un momento di rigenerazione di contenuti e battaglie. Partendo anche dagli argomenti più difficili, per esempio da un nuovo disegno complessivo di come gestire in modo sicuro e legale le migrazioni.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.