Al pensiero unico si è sempre ribellato. Così come al politically correct. Fuori dal coro di una politica, e una informazione mainstream, che oggi indossa la divisa e calza l’elmetto. Nichi Vendola, già presidente della Regione Puglia e tanto altro ancora, si ribella alla “caccia al pacifista”. E dalle pagine de Il Riformista lancia il suo j’accuse,

Caro presidente, un grande vecchio della sinistra, di cui non farò il nome, alla mia richiesta di intervenire sulla guerra, mi ha risposto con parole che mi hanno profondamente colpito e turbato: “Mi rifiuto di parlare, mi impongo di tacere, finché verrà avanti questa dominante, deformante, totalizzante, narrazione. È letteralmente impossibile alzare una voce di contrasto, senza, sull’altro lato, trovarsi in compagnia di tristi figure. E qualche ragionatore, che generosamente ci prova, viene preso a pesci in faccia sui media”. Siamo al trionfo del pensiero unico in divisa?
Sono anch’io molto turbato dalla caccia al pacifista. Il racconto mediatico trasuda insofferenza per chi non si lascia arruolare dal pensiero unico delle armi, e naturalmente il pacifismo è rappresentato in forme grottesche e caricaturali, come reducismo e come intelligenza col nemico. Io ascolto con rispetto coloro che, senza scomposte grida di guerra, invocano l’ingerenza umanitaria: penso a Erri De Luca o a Luigi Manconi, e non mi sogno di denunciarli come epigoni del battaglione Azov o guerrafondai. Non sono d’accordo con loro ma li capisco. Siamo tutti schiacciati dall’enormità di questa “morte in diretta”, dalle immagini della devastazione di Mariupol o di Kharkiv, dalla fuga disperata dalle bombe, siamo colpiti dalla tenace resistenza del popolo ucraino, cerchiamo tutti di capire dove sia il sentiero che conduce al cessate il fuoco, al negoziato, al compromesso che spenga la voce delle bombe. Tuttavia il pacifismo è messo al bando, è uno spatriato, un profugo. Il pacifismo come paradigma etico-politico nell’era nucleare, come critica dell’imperialismo e del nazionalismo, come impegno per il disarmo, viene derubricato a folclore o, peggio, a sciovinismo, diserzione, tradimento. Mal sopportata è persino la voce profetica di un pontefice che, vox clamantis in deserto, ci ha richiamati più volte a reagire a quella che lui ha chiamato “terza guerra mondiale a pezzi”: e purtroppo le vittime di guerre lontane e invisibili, le vittime che non ci somigliano, che non hanno la pelle bianca, che non sono nostri vicini di casa, fatichiamo a conoscerle e a nominarle. Qui siamo, in un vero cataclisma della vita e del linguaggio, in piena adunata militare dei sentimenti e dell’immaginario. Qui la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma è l’estinzione della politica. Chi è renitente a questa leva obbligatoria, chi evoca la nozione di “complessità” – complessità delle vicende storiche e della geopolitica – è immediatamente marchiato come quinta colonna del Cremlino. Eppure i pacifisti sono contro Putin da sempre, lo sono oggi e lo erano ieri, e non si stupiscono dei crimini del suo regime: li denunciano da sempre. Non fanno diagnosi sulla salute mentale di uno zar redivivo che “improvvisamente” fa la guerra, perché sanno che Putin la guerra l’ha fatta sempre, fin dal giorno in cui si è insediato al potere, ogni santo giorno per vent’anni, una sporca lunga orribile guerra imperiale: dalla Cecenia alla Georgia alla Siria alla Crimea. I pacifisti non dimenticano lo stile con cui Putin il Terribile regolava i conti con i terroristi ceceni nel teatro Dubrovka di Mosca (ottobre 2002), o nella scuola di Beslan, in Ossezia (settembre 2004): ordinando la strage, anche dei civili, anche di centinaia di bambini, in una mostruosa esibizione di forza fatta persino con l’uso di gas nervini o con le granate. Se cercate i filo-Putin non venite nelle nostre case, troverete obiettori di coscienza, cooperanti, volontari in cento missioni di pace. Chiedete a quelli come Gerhard Schroeder, che a Mosca è di casa. E chiedete a lui e a Tony Blair cosa sia diventata la “nuova sinistra” del gas, del petrolio, della globalizzazione delle lobbies. Chiedete ai Salvini e ai sovranisti di tutto il mondo. Putin era Putin già quando l’Occidente liberale siglava con lui ciclopici accordi commerciali o quando lo accoglieva nel salotto esclusivo del G8. Già allora si poteva ben vedere il suo stile: la repressione del dissenso, la caccia agli oppositori, la violenza militare come strumento di conquista, l’ipoteca di sangue sulla libertà dell’informazione.

I 50mila pacifisti che hanno dato vita, qualche sabato fa, ad una grande manifestazione a Piazza San Giovanni a Roma, sono stati accusati dalla stampa mainstream di tutto e di peggio: servi di Putin, quinta colonna del nuovo Hitler nella libera Europa… Anche Il Riformista è finito nell’elenco dei cattivi. E il pensiero unico interventista ha fatto molti proseliti anche tra le fila del Pd.
Non c’è solo la delegittimazione del pacifismo nella campagna “militare” dei media su Piazza San Giovanni. C’è qualcosa di più inquietante. C’è la voglia di punire la Cgil, già colpevole di lesa maestà per lo sciopero generale contro il governo Draghi. C’è l’insofferenza contro l’Anpi. C’è un riflesso d’ordine contro chi si ribella in un mondo letteralmente asfissiato dall’anarchia dei mercati, stressato da una pandemia che ha acuito le ingiustizie sociali, assediato dalla crisi ambientale. E c’è un tentativo di sfondare la sinistra nella sua “ragione sociale”, espellendone ciò che resta di radicamento nel conflitto di classe, liberandola dal peso della sua storia, trasformandola in una “cosa” progressista, liberal, evoluta sul terreno dei diritti civili, ma atlantista “senza se e senza ma”, “ora e sempre” governista, esperta di greenwashing, radicale nell’eticismo dei valori ma moderata fino allo sfinimento nella soggezione al potere economico, incluso il potere degli apparati militari industriali. Come dire? Una sinistra di destra…

Detto che in discussione non è chi, in questa tragica vicenda, sia l’invasore e chi l’invaso, la domanda è: si aiuta il popolo ucraino inviando armi o c’è un’altra via per una solidarietà concreta?
L’Europa invia armi e si riarma, mentre prega Dio che la Cina faccia ciò che non fa lei: buttare tutto il proprio peso politico ed economico sul terreno della diplomazia e del negoziato. Se la guerra è un pericolo per l’intera umanità e ci minaccia non solo con l’arma atomica ma anche con l’ipoteca di una catastrofica crisi alimentare, allora chiedo: cos’è l’Europa? Al netto della retorica, ognuno va per conto suo: da un lato gli europei del nord e dall’altro quelli del sud, la Germania fa il grande salto sulla via del riarmo, l’Italia per la spesa militare trova risorse che non c’erano per fare la guerra alla povertà, ogni nazione gonfia i propri apparati bellici. E nel 2022 l’obiettivo del vecchio continente, come del mondo intero, non è dare un vaccino a tutto il pianeta, non è preoccuparsi dell’acqua o del cibo che mancano, non è fermare l’impazzimento del clima e l’avanzata del deserto, ma armarsi e ancora armarsi.

Chi è per Nichi Vendola, Vladimir Vladimirovich Putin?
Putin è figlio del suo mondo, dei sogni imperiali dell’ideologia panslavista; ed è figlio del nostro mondo, quello della politica di potenza e della corsa agli armamenti. Lui non è una sopravvivenza dell’era sovietica, se non nel senso dell’attitudine alla menzogna: per il resto lui oggi governa una società plasmata da un capitalismo di rapina, attorniato da una oligarchia arricchitasi con le privatizzazioni e con l’economia criminale, e domina la Russia con un controllo avvolgente dei media, dell’esercito e della magistratura. Sulla scena globale persegue il suo progetto della Grande Russia, lo fonda su una storiografia mitologica, lo legittima come barriera morale alla occidentalizzazione dei costumi, lo giustifica come reazione all’espansionismo reale della Nato a Est: usando come pretesto il pesantissimo riarmo dell’Ucraina e le importanti esercitazioni che su quel territorio ha svolto l’alleanza atlantica fino allo scorso anno. Dire che Putin è il nuovo Hitler, così come fu detto di Saddam o di Gheddafi, è una insensatezza: utile a mitizzarlo come nemico, ma inutile o fuorviante quando si voglia indagarne natura e contraddizioni, intuirne i punti deboli e magari capirne anche le ragioni, sapendo ovviamente che nessuna ragione giustifica la strage in corso. Ma il punto è che la pace, che tutti dicono di perseguire, si fa col nemico: e per costruirla occorre riconoscere il nemico come proprio interlocutore.

Lei oggi si sente più sicuro sotto l’ombrello della Nato?
La Nato nel tempo del bipolarismo e della guerra fredda era un ombrello a protezione dell’Occidente e dell’Europa. Con lo schianto del “socialismo reale” era logico ripensarne ruolo e missione, nell’ottica della sicurezza planetaria: ma così non è stato. Oggi la Nato non è solo un’alleanza politico-militare, ma anche e soprattutto un’ideologia e persino e una teologia, la fede nella supremazia militare come fondamento dell’ordine mondiale: cioè l’ordine del caos. Ciò che drammaticamente manca è l’Onu, ridotta ad una specie di effige in memoria del diritto internazionale. E manca il ruolo autonomo di un’Europa non gregaria degli Stati Uniti e non più prigioniera della propria frammentazione e dei propri egoismi nazionali. Dico l’Europa sovrana della democrazia e dei diritti, il continente dello Stato sociale e della pace: uno spazio capace di giocare la partita del futuro più che con la potenza delle armi, con la forza dei suoi valori e delle sue conquiste.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.