Il presidente di Più Europa, Riccardo Magi, che in Parlamento siede in Commissione Affari Costituzionali, è tra i promotori del Referendum per la Legalizzazione della Cannabis. Particolarmente attivo sul fronte della democrazia digitale, è sua la legge che ha introdotto in Italia, prima al mondo, la firma elettronica tramite Spid per i referendum. Recentemente è stata invece bocciata la sua idea di estendere l’autentica digitale alle sottoscrizioni delle liste per le consultazioni elettorali.

Il Parlamento ha detto no allo Spid per presentare le liste elettorali, lei ne è il principale proponente. A chi dava fastidio?
Da una parte c’è una resistenza molto forte, da parte dell’apparato amministrativo e ministeriale, che non vuole cambiare il modo di lavorare che ha avuto negli ultimi cinquant’anni, e dall’altra parte una resistenza – se possibile ancora più agguerrita – dai partiti che vorrebbero tenere il momento della presentazione delle candidature, uno dei più delicati in una democrazia, in grande opacità, in cui sostanzialmente le liste vengono finalizzate in modo un po’ oscuro. Perché lo Spid consentirebbe di fare un salto in avanti in termini di trasparenza per tutta la procedura.

Non vi fermerete qui, mi pare di capire.
Niente affatto. Intendiamo metterlo seriamente al centro di una discussione sull’assetto istituzionale, perché il rosatellum già prevedeva da anni l’introduzione della firma digitale. Solo che è stata data delega al governo di emanare dei decreti ministeriali per attuarla, e questi decreti non sono mai arrivati.

Mentre una sua iniziativa, quella di far firmare digitalmente i referendum, è andata in porto.
È stata una piccola grande rivoluzione che abbiamo ottenuto l’estate scorsa, superando il parere contrario del governo. Le novità generano sempre dubbi, diffidenze e paure. Ma siamo diventati il primo e l’unico paese al mondo ad avere la possibilità della firma digitale sui referendum e ne dobbiamo essere orgogliosi. Accettare la sfida del digitale nella democrazia è dirimente per una società che voglia tornare ad avere un rapporto democratico con la politica.

L’anno che si apre sarà quello dei referendum: Giustizia giusta, fine vita, legalizzazione cannabis. Il Parlamento non decide e i cittadini chiedono di esprimersi sempre di più e direttamente.
È importante per poter parlare di rapporto tra i referendum di iniziativa popolare e lo stato di salute della democrazia rappresentativa, sottolineare che tutti i referendum che si apriranno nella prossima primavera – dando vita a una stagione referendaria di importanza capitale – erano stati al centro di precedenti proposte di legge di iniziativa popolare che il Parlamento ha deliberatamente ignorato. Non ci si può stupire che ci sia poi un atto di vitalità prorompente.

Che non è tutto motivato dalla firma digitale, dallo Spid.
No, infatti. Quello sulla cannabis è stato raccolto con lo Spid, quello sul fine vita in gran parte con modalità cartacea e quello sulla giustizia attraverso la raccolta tradizionale, con in banchetti. Non è lo strumento che ha determinato l’interesse dei cittadini. Erano temi da troppo tempo rimossi dall’agenda politica.

La politica si occupa di bonus e assegni di contentino e non di decisioni chiare, di responsabilità assunte secondo scelte ideali. È questo il primo segnale della crisi di cui parla?
Assolutamente, la politica si occupa sempre più spesso dell’aspetto amministrativo e gestionale. Non dell’aspetto strategico e tantomeno degli indirizzi che il Parlamento dovrebbe dare al governo. Da questo punto di vista non possiamo sfuggire dalla considerazione, direi terminale, dei partiti. E queste questioni mi portano a pensare a quello che viene indicato come un possibile nuovo polo.

Un polo tra forze liberaldemocratiche e riformiste?
Diciamo di sì. E però diciamoci per fare cosa. Se diciamo che la democrazia rappresentativa è in una crisi drammatica, dobbiamo anche saper individuare una soluzione. Non si può non vedere che la crisi è dovuta alla crisi dei partiti. Se la società è liquida, la politica è gassosa: l’incapacità di formare classe dirigente si tramuta in incapacità di dare rappresentanza agli elettori.

Bisogna tornare all’articolo 49 della Costituzione, dare una forma definita all’esigenza di partecipazione dei cittadini.
Come partecipa il cittadino? Con i referendum, direttamente, e quindi con la nuova tecnologia al servizio dei cittadini. E attraverso i partiti. Ma oggi un cittadino che vuole partecipare alla vita politica può sentirsi garantito dai partiti? Io dico di no. Perché i partiti sono soggetti spappolati, verticistici. E incapaci di svolgere un ruolo vero. Abbiamo di fronte dei cadaveri, delle macerie. E quindi siamo nella condizione ottimale ma anche urgente di correre ai ripari dando delle regole ai partiti.

Come costruire un’alternativa ai conservatorismi di destra e di sinistra?
Ponendosi secondo me in primo luogo il momento della necessaria rifondazione della forma-partito. Costruendo una modalità partecipativa autentica. E di intendersi bene sull’agenda: non si tratta di fare un polo di centro, nel senso democristiano del termine. Al contrario, è il momento di darsi un appuntamento al centro tra chi vuole fare riforme radicali del sistema politico.

Il leaderismo è la malattia senile della partitocrazia?
In qualche modo sì, oggi il leaderismo è la fase finale della crisi della democrazia. Accentuato molto dal potere che hanno le piattaforme digitali per consentire ai leader di raggiungere un bacino ampio. Le piattaforme digitali hanno un ruolo, ma non bisogna scambiare il Like per un’adesione ideale. Ed è proprio il contrario dello Spid: io chiedo autenticazione formale, forte. Un impegno sottoscritto in forza di legge, con una responsabilità di chi firma digitalmente. I leader dei partiti, soprattutto quelli populisti, scambiano i Like per consenso.

Il consenso digitale invece è sospinto dai mestatori della Rete, dagli algoritmi conversazionali, dalle echo-chamber…
Su questo c’è una mia proposta di legge: servono forme di regolamentazione, anche responsabilizzando le piattaforme, e vanno posti dei limiti a quante sponsorizzazioni si possono fare. Vanno posti limiti di budget e ci deve essere trasparenza sugli algoritmi che indirizzano i messaggi della propaganda politica. Nell’ultima campagna elettorale abbiamo avuto leader politici che hanno speso centinaia di migliaia di euro in campagne Facebook. I paletti della normativa fissano dei tetti per le cene elettorali, per i manifesti, per i volantini. E ignorano le piattaforme su cui si gioca ormai la partita vera.

A proposito di democrazia decidente, prende corpo da più parti l’idea di andare verso un Sindaco d’Italia. È un obiettivo che condivide?
Spero che queste suggestioni diventino un lavoro concreto di elaborazione, con un tavolo istituzionale delle riforme, o forse con una commissione che possa poi dare vita a una Assemblea Costituente. Credo, da questo punto di vista, che il pallino sia nelle mani del centrodestra; spero ci sia, da quelle parti, chi ha una statura tale da affrontare seriamente questa questione.

Massima priorità vede invece per la riforma elettorale, senza guardare al contenitore istituzionale?
Ed è un errore. Bisogna muoversi con la prospettiva alta dell’assetto istituzionale. Io sarei assolutamente favorevole a soluzioni come quella del semipresidenzialismo o di un presidenzialismo.

Poi naturalmente il presidenzialismo porta con sé la riforma della Costituzione, di tutta la seconda parte…
Assolutamente e per questo va aperto quel cantiere, con serietà. Questo bicameralismo è oggettivamente morto, superato nei fatti. Viaggiamo al ritmo di quattro fiducie al mese. Siamo di fronte a una malattia nella sua fase terminale, che comprende tutti gli aspetti che abbiamo fin qui elencato.

Tra le riforme di sistema quella della giustizia è la più urgente. E se pensiamo al sistema carcerario, emergenziale.
Ci sono riforme da fare per gli enormi problemi ordinamentale e di organizzazione della giustizia, e metto su tutto la separazione delle carriere. E però non è sufficiente, se parliamo della mancanza di una giustizia giusta nel nostro Paese. Bisogna parlare di politiche criminali. E cioè di chi si decide di mandare in carcere.

Troppi finiscono dentro per piccoli reati?
Bisogna andare a vedere perché si finisce in carcere: il motivo principale è la legge sulla droga. Pino Arlacchi alla fine degli anni Novanta diceva che con le leggi italiane, di gran lunga le più punitive al mondo, avremmo debellato le droghe in pochi anni. Oggi ne abbiamo più di prima. Il consumo, la detenzione e lo spaccio sono aumentati in modo esponenziale. Ma avendo anche riempito le carceri, e avendo appesantito fino all’ingolfamento la macchina della giustizia. Non ci sono più motivazioni logiche e razionali, ci sono solo motivazioni dogmatiche, ideologiche e moralistiche per non cambiare rotta. Da quando c’è questa legge le segnalazioni al Prefetto, con il ritiro della patente, sono circa un milione e mezzo di cittadini. Dobbiamo ora guardarci dentro e aggredire quello che la politica partitica non riesce a fare.

Forse andrebbe ripreso in mano il tema dell’indulto, se non dell’amnistia.
Certo. Ma c’è da fare prima una riforma, perché in uno dei passaggi più giustizialisti e beceri della vita di questo Paese, dopo Mani pulite, si è modificata la Costituzione e per ottenere amnistia o indulto serve un doppio passaggio della maggioranza qualificata. Va riportata alla maggioranza dei membri. Rendendo questi provvedimenti motivabili con condizioni di particolare urgenza, quali ad esempio il sovraffollamento e la pandemia.

Chissà se sarà il prossimo Presidente della Repubblica a farsene carico.
Siamo alla vigilia dell’elezione, nessuno può sapere come andrà. Questi ultimi anni ci hanno abituati a vedere di tutto. Mi sento di indicare un auspicio, che chiunque arrivi non pensi di mettere fine alla legislatura in fretta e furia, magari anche per impedire lo svolgimento dei referendum.

Con la tentazione, già vista più volte in passato, di fare reset?
Appunto. E i tre referendum invece indicano un cambio di rotta su cui i cittadini si dimostrano sensibili, ben più avanti del Parlamento. E non sono referendum che minano le istituzioni: le puntellano. Fissano dei paletti che restituiranno dignità alla politica.

E magari anche tornando a coinvolgere le persone “in presenza”, contro la deriva della democrazia gassosa.
Domani abbiamo un appuntamento alle Stelline, a Milano, con Più Europa. Ci sarà il sindaco Beppe Sala, Carlo Cottarelli, e insieme con me Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Bisogna tornare a incontrare le persone e mettere in campo proposte di legge concrete a partire da quelle sulle libertà individuali e sui diritti civili. Il polo delle riforme radicali si inizia a creare così, senza leaderismi, con la partecipazione fisica e digitale che coesistono insieme.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.