«Il Mes? Dovreste prenderlo. E di corsa». Non ha proprio dubbi Michael Spence, premio Nobel per l’economia e professore emerito alla Stanford School of Business. «Se c’è un programma credibile da finanziare, quei soldi vanno utilizzati. Senza farsi influenzare dai simboli: è vero che il Mes fu inventato durante la crisi del debito e ha una brutta fama. Ma è denaro a basso prezzo. Quel che importa è avere un piano aggressivo di investimenti che cambi le opportunità per i cittadini e dia all’economia la possibilità di crescere. E al diavolo da dove arriva il denaro». Spence parla con Il Riformista Economia a margine dell’Incontro “L’economia della banca sociale”, organizzato dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto in collaborazione con Intesa Sanpaolo.

Anche senza il Mes, l’Italia ha un debito che viaggia sui 2.400 miliardi di euro e punta al 160% del Pil. Non le sembra una bomba innescata nel bel mezzo dell’area euro?
«Non è una situazione così pericolosa. Finché la banca centrale assicura tassi d’interesse al minimo anche un debito così grande non è una bomba ad orologeria. È certo un vincolo, per ogni governo che sia responsabile. Ma dappertutto i Paesi si stanno indebitando, e credo sia di gran lunga la miglior cosa da fare, in questo momento. L’alternativa sarebbe far danni in altre parti dell’economia. I redditi delle famiglie sono diminuiti, le piccole imprese sono nei guai, il settore finanziario ha problemi: ritengo che spostare parte dei malanni sul lato del debito sovrano sia giusto. La grande sfida per l’Italia è la crescita, che in termini reali è stata troppo bassa per due decenni. Adesso avete il supporto dell’Unione Europea, con proposte e linee guida su come spendere. La sfida è di produrre una strategia che possa cambiare la vostra economia e garantirne la crescita nel tempo».

Tra i processi che la pandemia ha accelerato, c’è quello di un sempre minor costo del denaro. Le banche centrali di Svizzera, Giappone e Svezia, oltre che la stessa Bce hanno alcuni tassi già in negativo. La Banca d’Inghilterra sta pensando di emularle. Come vede un futuro a tassi negativi, per l’economia? Sparirebbero le banche, così come le conosciamo? Niente più banconote, come dice il suo collega Kenneth Rogoff? Quali le ripercussioni nella vita di ogni giorno?
«È un territorio inesplorato e secondo me preoccupante. Il modello di business delle banche funzionerebbe in un ambiente a tassi negativi? Davvero non lo so. È un’ avventura complicata, da evitare. Di sicuro ci sarebbero contraccolpi gravi sulla distribuzione della ricchezza. La parte minoritaria della popolazione che ha redditi alti investirebbe in asset digitali, intangibili e ad alto rendimento. Mentre per la classe medio bassa, che risparmia per comprarsi una casa o per investire in attività finanziarie non sofisticate, avere dei ritorni decenti diventerebbe sempre più difficile. Come vediamo già oggi con titoli di Stato che rendono zero o quasi. Un ambiente a tassi negativi genererebbe una distribuzione del reddito ancora peggiore di quella attuale.

La pandemia cambierà il mercato del lavoro?
«Molti posti di lavoro perduti potrebbero non tornare . Ci sarà un persistente problema di impiego per le categorie a minor reddito. Ciò varierà da Paese a Paese, e dipenderà anche dai programmi dei governi per rimettere in piedi le attività più colpite. Ovunque, però, la pandemia ha portato alla cosiddetta “accelerazione digitale”. Con effetti multipli, diretti e indiretti, sul mercato del lavoro».

Sarà sempre più difficile, per chi non ha un titolo di studio o comunque conoscenze digitali?
«Sì, credo proprio che sarà così. Le persone che ce la faranno meglio sono quelle che in questa situazione possono continuare a lavorare da casa. È un gruppo consistente e in crescita, ma non rappresenta certo l’intera economia. Le stime per l’America sono che un terzo degli occupati può lavorare da casa. Ciò relega gli altri due terzi, spesso impiegati nelle industrie essenziali e con salari più bassi, in una categoria a rischio, vulnerabile sotto diversi aspetti».

Donald Trump fece grandi promesse sulla creazione di posti di lavoro. Secondo i critici del Presidente, anche prima del Covid quelle promesse non erano state mantenute. Nel senso che l’aumento degli occupati era in linea con tendenze antecedenti al suo mandato, niente di più. Trump ha fallito?
«Credo che la sua azione abbia soprattutto promosso il lavoro meglio pagato, cosa che è certamente criticabile. Ma è vero che fino alla pandemia il mercato del lavoro americano stava operando a livelli molto bassi di disoccupazione. Considerando i dati complessivi, non ci sono le basi per essere troppo critici con Trump. Il fatto è che le sue politiche hanno discriminato il lavoro con retribuzioni medio-basse, con conseguenze negative sulla distribuzione del reddito».

Ma le guerre commerciali, di cui il Presidente è uno specialista, fanno perder posti di lavoro?
«In generale sì. Perché creano ostruzioni nell’economia globale. Se poi si scende nei dettagli micro-economici, si possono probabilmente trovare categorie che ne beneficiano. Certo è necessario bilanciare meglio il sistema del commercio globale per poter risolvere più efficacemente gli squilibri domestici. Ma le guerre commerciali non sono il modo migliore per raggiungere questo obiettivo».
Si aspetta instabilità negli Stati Uniti, anche alla luce anche della positività al Covid-19 di Trump? C’è chi paventa una crisi istituzionale.
«C’è molta incertezza che si moltiplicherebbe nel caso in cui la positività del presidente evolvesse in una malattia grave. Più in generale, se ci fosse una vittoria schiacciante, anche nel voto popolare, da parte di uno dei due contendenti, che sia Biden o Trump, l’incertezza certo si ridimensionerebbe. E anche se Trump contestasse un risultato a lui sfavorevole, come pare potrebbe fare, ciò non sarebbe decisivo».

Meglio quindi una chiara vittoria democratica o repubblicana, una Blue Wave o una Red Wave, purché sia davvero un’ “ondata”.
«Anche perché senza risultati chiari, col nostro strano sistema, potrebbe finire per decidere il Parlamento. E alla House of Representatives varrebbe il principio della rappresentanza per Stato. Trump, insomma, potrebbe essere rieletto anche se sconfitto al voto popolare con un largo margine. C’è timore per il dopo-elezioni. La polarizzazione presente nella società americana potrebbe portare a situazioni molto difficili: dimostrazioni di piazza, e violenze non sono da escludere. Chi è preoccupato ha ben ragione di esserlo».

Una Blue Wave, una vittoria democratica con una forte maggioranza al Congresso, significherebbe più spesa pubblica. È ciò di cui l’economia necessita?
«Probabilmente sì, almeno per uscire dalla pandemia. Poi Biden attaccherebbe la diseguaglianza. Ci sarebbe una spesa fiscale sostanziosa indirizzata a obbiettivi come la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria e la scuola».

E questo farà crescere l’economia?
«Non necessariamente, nel breve periodo. Ma sul lungo termine qualsiasi politica fallisce, se la società è polarizzata e frammentata. Quindi anche questo genere di interventi finisce per favorire la crescita. C’è una larga gamma di opinioni, anche tra i democratici. Biden non è un socialista. La sua amministrazione sarebbe centrista. Ma ascolterebbe la sinistra del partito. E sì, sacrificherebbe la crescita nel breve termine a favore dell’inclusione sociale e della crescita futura».