La mia storia detentiva è lunga trent’anni, per questo va raccontata “bene”. Comincio dall’ultimo capitolo, perché sia nota non più e solo la mia biografia criminale, bensì la biografia culturale, famigliare e delle mie relazioni umane. L’identità di una persona non è un monolite. Non siamo statue di sale, immutate e immutabili socialmente o geneticamente. So bene che conta “chi sono stato”, ma credo valga la pena scoprire anche chi sono diventato, e se rappresento ancora un pericolo per la società. In fondo è questo ciò che conta. Il nostro ordinamento giuridico è laico, non moralistico e le carceri non sono istituti di correzione. È opportuno che uno abbia una sua moralità, ma ai fini della libertà non è la morale a fare la differenza. Per essere arrestato devo commettere un reato, per riottenere la libertà devo smettere di commettere reati. Bene! Io non commetto reati da trent’anni. Ho sradicato ogni rapporto con gli ambienti criminali. Non mi passa per l’anticamera del cervello riprendere l’attività delinquenziale. E ripudio ogni forma di violenza in piena sintonia con lo spirito dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino.

È da qui che inizia la mia nuova vita: dalla nonviolenza, dalla legalità, dalla cultura. Nel dicembre 2021, Castelvecchi ha pubblicato un mio romanzo, Sofia aveva lunghi capelli. Per il critico Filippo La Porta è “scritto in una lingua tesa, vibrante, sia riflessiva che fortemente narrativa”. Andrebbe letto per capire che la sofferenza è il viatico molecolare della resipiscenza. Scrivere è la mia passione. La pubblicazione di un libro è un fatto culturale, legale e sociale importante che andrebbe forse considerato nelle decisioni inerenti al mio destino. Alla scrittura unisco la creatività. Ho ideato due giochi di società, non ancora pubblici. Ho quattro lauree e sono titolare di borse di studio. Dal carcere, essere l’82° in graduatoria nell’Ateneo bolognese non è scontato. È frutto della tenacia con cui mi sono dedicato allo studio: otto, dieci, dodici ore al giorno indicano un isolamento detentivo volontario. Ho praticamente consumato il culo sullo sgabello dell’amministrazione, consapevole che la cultura mi avrebbe liberato dalla croce della pena, anche fisica, e mi avrebbe risvegliato la mente… assopita dal male di pensieri e azioni non “banali”.

Dopo la prima laurea, nel 2007, al DAMS di Bologna, l’Alleanza Assicurazioni mi offrì un lavoro, ma allora non mi si volle dare fiducia. Nel 2009, per la seconda laurea, il magistrato di sorveglianza di Parma mi ha concesso un permesso di necessità di due giorni, libero nella persona e affidato a Don Umberto Cocconi. Scaduto il permesso, sono rientrato in carcere. Quel permesso non è caduto dal cielo. La manna, nella mia riabilitazione, non è mai esistita. Proprio come Adamo, per aver “peccato”, ogni frutto mi è costato sacrificio. Il parere favorevole a esperienze di permesso premio non è stato improvvisato. Prima di esprimersi, il carcere mi ha assegnato per un anno alle cure della criminologa. Adesso sto a Rebibbia. Nonostante siano passati trent’anni, ho una moglie che mi ama e siamo genitori di un bambino che non abbraccio dall’inizio della pandemia. Quanta sofferenza in questa assenza. Con Sonia abbiamo deciso di non far entrare più in carcere il bambino, sperando in un beneficio che invece mi è stato negato, malgrado l’ottimo percorso rieducativo. Il 23 marzo scorso, la direttrice Rosella Santoro aveva proposto che io presenziassi a un evento all’Università di Tor Vergata, ateneo nel quale mi sono laureato. Il magistrato di sorveglianza ha prima approvato la proposta, poi ha cambiato idea. Saputo dell’approvazione, Sonia ha preso le ferie, ha comprato i biglietti del treno Lecce-Roma, ha prenotato l’albergo e “preparato” il bambino dicendogli che “sarebbero andati da papà”. Col diniego tutto è svanito. Inevitabile il danno affettivo del bambino, non dico di mia moglie.

Ho scontato 40 anni tra liberazione anticipata e indulto. Nel mio curriculum universitario si contano 80 esami e uno splendido rapporto umano con professori e tutor. In quello teatrale molti spettacoli e la partecipazione al film Rebibbia Lockdown di Fabio Cavalli. Ho seguito un corso di giornalismo. Ho partecipato al laboratorio di pratica filosofica. Sono autore con altri delle seguenti opere: La ferita della pena e la sua cura; Naufraghi in cerca di una stella; Parola e rappresentazione nel teatro antico; Il Senso della Pena. È vero che ho l’ergastolo e che alla collaborazione esteriore con la giustizia ho preferito la strada lunga del cambiamento interiore. Questa categoria del cambiamento dà frutti che non si possono raccogliere né subito né dopo, giacché il cambiamento è un processo inarrestabile che non finisce mai. Ho commesso reato, ma io non sono il mio reato. Ho fatto del male, ma io non sono il male.