Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che per la prima volta in cinque mesi ha approvato una risoluzione che chiede un immediato cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, segna una novità importante nel “grande gioco” diplomatico parallelo al conflitto. E anche se potrebbe non trattarsi di un momento rivoluzionario per il futuro della guerra, il segnale lanciato dagli Stati Uniti con l’astensione sul voto implica una novità di cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu non può non tenere conto. Nel documento si chiede il “cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan rispettato da tutte le parti che porti ad un cessate il fuoco durevole e sostenibile”. E unitamente allo stop alle ostilità, la risoluzione auspica il “rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, oltre a garantire l’accesso umanitario per far fronte alle loro esigenze mediche e altre esigenze umanitarie”.

La spiegazione

Il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha provato a non alimentare le voci su una rottura tra Washington e il suo più importante alleato mediorientale. “Siamo chiari e coerenti nel nostro sostegno ad un cessate il fuoco come parte di un accordo per gli ostaggi, è così che l’accordo sugli ostaggi è strutturato” ha detto il funzionario Usa. L’ambasciatrice Usa all’Onu, Linda Thomas-Greenfiled, ha spiegato che il documento “riconosce giustamente che durante il mese di Ramadan dobbiamo impegnarci per la pace”. “Hamas lo faccia accettando l’accordo sul tavolo: un cessate il fuoco può iniziare immediatamente con il rilascio dei primi ostaggi, e dobbiamo fare pressioni su Hamas affinché lo faccia” ha continuato. Mentre il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha ribadito l’impegno sul negoziato per liberare le persone rapite il 7 ottobre. Ma queste parole, che confermano la linea statunitense in questa guerra, racchiudono in realtà un messaggio molto più incisivo. L’amministrazione Biden chiede da tempo al governo israeliano un cambio di rotta. E in attesa di capire se lo Stato ebraico lancerà la sua offensiva su Rafah – città della Striscia dove gli uomini di Hamas sono asserragliati insieme a un milione e mezzo di rifugiati palestinesi – gli Stati Uniti hanno più volte ribadito a Netanyahu di ripensarci. O quantomeno di rimodulare le sue idee riguardo l’assedio, anche pensando a un “piano B” che tuteli in prima battuta i civili.

Una questione di principio

Il tema sarebbe stato al centro dei colloqui di questa settimana a Washington tra una delegazione di alto livello israeliana e funzionari Usa. Ma Netanyahu, in risposta all’astensione al Consiglio di Sicurezza, ha deciso di annullare la missione a Washington del consigliere per gli Affari strategici, Ron Dermer, e del consigliere per la sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi. Per i media israeliani, Bibi avrebbe accusato l’alleato Usa di essersi “ritirato” su un tema che doveva essere considerato una “questione di principio”. E l’ufficio del primo ministro ha spiegato poi che la risoluzione “danneggia sia lo sforzo bellico che il tentativo di liberare gli ostaggi, perché dà ad Hamas la speranza che la pressione internazionale permetterà loro di accettare un cessate il fuoco senza il rilascio dei nostri ostaggi”. E non è un caso che la stessa Hamas, per alimentare la discordia tra i due Stati, abbia deciso di lodare pubblicamente la risoluzione Onu. La decisione del governo israeliano, come ha spiegato il portavoce della Casa Bianca, è stata accolta con grande delusione dall’amministrazione Biden. Il gelo tra i due alleati sembra quindi ormai sempre più evidente. E il ritiro della delegazione israeliana, il cui invio era stato interpretato da molti osservatori come un timido segnale di dialogo, segna un deciso passo indietro rispetto a un rinnovato interesse di dialogo intravisto negli ultimi giorni.

La trattativa

Elemento che è stato sottolineato anche dal leader dell’opposizione Yair Lapid, che ha bollato la mossa di Netanyahu come una “allarmante mancanza di responsabilità”. La speranza è aggrappata al viaggio del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che era appena arrivato negli Usa per discutere dei più importanti dossier in comune (dagli F-35 alla situazione della regione, dalla fornitura di armi fino alla gestione del possibile assalto a Rafah). Il ministro israeliano è stato netto: per lui, il governo “non ha il diritto morale di fermare la guerra a Gaza fino al ritorno di tutti gli ostaggi nelle loro case”. E sempre Gallant ha messo in chiaro un punto fondamentale: “Agiremo contro Hamas ovunque, anche nelle aree in cui non siamo ancora stati. Creeremo un’alternativa a Hamas in modo che le Idf possano completare la loro missione”. Gli Stati Uniti sperano che attraverso Gallant si riesca a ripristinare un canale di comunicazione sereno con il governo israeliano, soprattutto perché gli apparati della Difesa e dell’intelligence sono sempre stati ritenuti gli interlocutori preferiti di Washington. Ma senza il placet di Netanyahu, per Gallant è impossibile trattare sulle condizioni della guerra.