La pena di morte è stata ufficialmente abolita nel 1947 e definitivamente cancellata dalla nostra Costituzione nel 2007, eppure gli italiani non sembrano essere così contrari. I dati che emergono da un recente sondaggio elaborato da Swg (e offerto all’Huffington Post) raccontano un Paese pronto a somministrare, senza pietà, iniezioni letali. Il 37% degli intervistati si è dichiarato favorevole, tre anni fa la percentuale era del 35%. Nel 2010 eravamo al 25%. Il dato cresce di più di un punto all’anno e se questo trend forcaiolo continuerà, con questi ritmi, chissà se fra meno di dieci anni saremo pronti a organizzare esecuzioni in diretta streaming. Basta con la pietà e con il buonismo, sì alle sedie elettriche, magari di ultima generazione. Ma di chi è la colpa? Degli immigrati! Qualcuno è già pronto a twittare.

L’Italia è uno dei paesi europei più sicuri, ma fra i casi di cronaca nera raccontati sui giornali, le opinioni di improvvisati opinionisti nei salotti tv, ecco che gli italiani sono pronti a invocare punizioni esemplari e a improvvisarsi criminologi, mentre si diffonde un sentimento collettivo di paura e sospetto che altera la realtà. Eccolo qua il punto di partenza di un legislatore pigro che inasprisce le pene, acconsente a uno scellerato uso dei trojan e sospende la prescrizione. Ma non saranno allora i ritardi e le disfunzioni del sistema giustizia il problema? Tra innocenti in carcere e colpevoli a piede libero, restiamo tutti sotterrati sotto agli enormi faldoni stipati, da anni, nelle procure. Mentre più di qualcuno è pronto a mettere in piedi veri e propri plotoni d’esecuzione, nel mondo sono ben 142 gli stati che hanno abolito la pena di morte o che comunque non eseguono condanne da molti anni. L’Oceania è l’unico continente libero dalla pena di morte. Lo sarebbero anche l’Europa e le Americhe, se non fosse per la Bielorussia e gli Stati Uniti d’America dove dopo 17 anni “grazie” al presidente Donald Trump sono ripartite le esecuzioni.

Discorso a parte va fatto per la Cina che continua a considerare i dati sulla pena di morte un segreto di stato. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International in medio Medio Oriente Iran, Iraq e Arabia Saudita sono poi tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni. Qualche passo avanti lo ha fatto l’Africa sub-sahariana, dove alla fine dell’anno scorso la Corte africana dei diritti e dei popoli si è pronunciata contro l’obbligatorietà della pena capitale e dunque in favore del principio della discrezionalità del giudice. Lo scorso anno nel mondo sono state però almeno 657 esecuzioni. Per fortuna l’orientamento delle nostre istituzioni non sembra allinearsi con la sempre più invocata “pancia del paese”. Qualche giorno fa la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, intervenendo in video conferenza in occasione del decennale della nascita della Commissione internazionale contro le pena di morte ha dichiarato: «Nel corso degli anni abbiamo contribuito attivamente a diverse iniziative per sensibilizzare le opinioni pubbliche sull’applicazione della pena di morte a persone vulnerabili, ma anche sulle tantissime altre ragioni che devono spingerci a fermare le esecuzioni».

Ma i dati ci sono e parlano chiaro. Forse invece di sperare inerti di non regredire alla legge del taglione dovremmo ripensare seriamente il sistema giustizia. Rendere più agile il lavoro dei tribunali, senza rinunciare però al diritto di un processo giusto.  È tempo di smetterla di accettare, a prescindere, discorsi del tipo “chiudiamolo dentro e buttiamo la chiave, deve marcire in carcere” o peggio “si merita la morte”. Non è la soluzione.  Per invertire la tendenza c’è bisogno di riformare il sistema giustizia e migliorare il sistema carcerario, così che i discorsi sulla pena di morte restino chiacchiere da bar e che non si possano tramutare in una spaventosa realtà.