Avrà qualche problema a pubblicizzare i propri blitz, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Ne avrebbero avuti di enormi i carabinieri che girarono i famosi video per incastrare Massimo Bossetti, condannato per la morte di Yara Gambirasio. Ma ancor di più sarebbero stati impossibilitati addirittura a comparire in video, i quattro sostituti procuratori, Di Pietro, Colombo, Davigo e Greco che nel luglio del 1993 si affacciarono alle case degli italiani, dopo il decreto Biondi, per spiegare che loro senza manette non potevano lavorare.

Tutto ciò non potrà più accadere dopo che l’Italia, con grande merito della ministra Cartabia, pur se con cinque anni di ritardo, ha finalmente accolto la direttiva numero 343 del 2016 dell’Unione Europea sulla presunzione di innocenza. È stata recepita dal Parlamento con il voto su un ordine del giorno proposto dal deputato Enrico Costa, che ha delegato il governo a emettere il decreto approvato ieri. Il provvedimento tornerà poi in commissione, speriamo senza danni. Tutto è finora stranamente filato liscio, quasi non ci fosse consapevolezza da parte di tutte le forze politiche, della portata rivoluzionaria che ha la presunzione di non colpevolezza esplicitata non più solo nella Costituzione, ma nella pratica quotidiana delle inchieste penali, nel Paese della gogna mediatica assunta a prassi quotidiana.

Come prima cosa nessun indagato né imputato potrà mai essere presentato all’opinione pubblica come colpevole di un delitto fino a che la sua responsabilità non sia accertata e sancita da una sentenza passata in giudicato. Qualora un magistrato o un esponente delle forze dell’ordine o comunque un’“autorità”, cioè un rappresentante istituzionale, dovesse violare questo principio, subirebbe sanzioni sul piano penale e disciplinare, oltre che in un procedimento per il risarcimento del danno. Ma soprattutto, la persona infangata da una sorta di sentenza di condanna anticipata, avrà il diritto a un immediato risarcimento di immagine, con una rettifica entro 48 ore, che dovrà avere lo stesso rilievo delle notizie accusatorie già diffuse. Il che comporta un impegno, anche se non vincolante, per la stampa. Ma sarà dura. Par di vederlo, Marco Travaglio mentre pubblica le rettifiche dei suoi amici e collaboratori pubblici ministeri.

Se davvero questa norma avrà le gambe della concretezza, si sarebbe realizzato il sogno di ogni indagato, ma in particolare di ogni personaggio pubblico vittima del fango mediatico che ha insozzato l’Italia dai primi anni novanta in poi. Ve la immaginate la prossima conferenza stampa del procuratore Gratteri? Abbiamo sgominato una cosca mafiosa, questo lo potrà forse dire, anche se non toccherebbe a lui ma alle forze dell’ordine. Ma non potrà fare i nomi dei boss, o meglio dovrà precisare che Tizio e Caio cui i carabinieri hanno appena stretto le manette ai polsi non sono dei capimafia ma dei semplici indagati. Quanto poi al politico di turno (quello c’è sempre, se no i giornalisti non arrivano in massa), non si potrà dire che il suo aiuto è stato fondamentale per il rafforzamento della cosca e della sua attività criminale. Al massimo si potrà accennare al fatto che c’è un sospetto, su cui occorrerà ancora indagare e approfondire.

Ma tutti questi ragionamenti potrebbero essere superflui, dal momento che è la stessa possibilità da parte dei procuratori di incontrare la stampa a subire forti limitazioni, secondo quanto impone il decreto. Salvo birichinate sempre possibili in terra di gogna, la modifica del decreto legislativo del 2006, numero 106, sulle comunicazioni alla stampa, pone due limiti alla possibilità di questi incontri per riferire su indagini penali in corso. Il primo: la comunicazione all’opinione pubblica potrà avvenire solo se strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini. Il secondo: occorre che esistano rilevanti ragioni di interesse pubblico.

Ora, restando nell’esempio della prassi usata dal procuratore Gratteri: comunicare ogni volta di aver sgominato una cosca, salvo poi dover sbattere il naso perché i giudici sconfessano le sue iniziative, è veramente indispensabile per poter continuare le indagini, visto che tra l’altro le sue inchieste cominciano e finiscono con il blitz iniziale? Inoltre, quali sarebbero le rilevanti ragioni di pubblico interesse per comunicare al mondo ogni propria iniziativa?

Per quel che riguarda gli ufficiali di polizia giudiziaria, dovranno essere esplicitamente autorizzati dal Procuratore capo dell’ufficio. Questo è un colpo pesante per la vanità di tanti esponenti delle forze dell’ordine e per i loro video buttati nel giro delle tv e dei social nei casi più eclatanti e a indagini in corso. Restano agghiaccianti i due video dei carabinieri del caso Bossetti, per esempio. Il primo ha registrato il momento dell’arresto, con la telecamera che frugava impietosa gli occhi smarriti del muratore mentre impaurito cercava di scappare dal cantiere dove stava lavorando, con un carabiniere che gridava all’altro “sta scappando, prendilo, prendilo”, finché lui docilmente si era lasciato ammanettare. Possiamo definire comportamenti più che incivili quelli di chi ha girato, di chi ha diffuso e dei giornalisti che hanno accettato il “regalo” di quel video? Possiamo. Ed è bene ricordarle, queste cose, perché il secondo episodio che riguarda Bossetti è ancora peggio del primo. Qualcuno forse ricorderà il video in cui si vede un furgone bianco, di cui si suppone, ma non sarà mai provato, fosse di Bossetti, girare ossessivamente nella zona dove la piccola Yara era andata in palestra. Bene, durante il processo d’appello, un alto ufficiale dei carabinieri confesserà che quel furgone era passato una sola volta, ma che loro avevano confezionato quel montaggio “per esigenze di stampa”. Ora basta con queste porcherie, si spera. E speriamo di non illuderci.

Ma il decreto sul punto è chiaro. Se proprio ce ne sono i motivi, parla solo il Procuratore. Inoltre il Pg di ogni Corte d’appello dovrà riferire ogni anno al procuratore generale della Cassazione su ogni aspetto della comunicazione nel proprio distretto. Non osiamo immaginare che cosa sarebbe successo sul piano della comunicazione con questa nuova normativa in quel luglio del 1993 dopo il decreto Biondi. Sicuramente non avrebbero potuto andare in tv con la barba lunga e gli occhi arrossati per la sceneggiata del secolo i quattro sostituti. E la presenza del solo procuratore Borrelli avrebbe avuto meno efficacia. Chissà, forse una norma come quella deliberata ieri dal Consiglio dei ministri avrebbe cambiato la storia. E a maggior ragione se diventeranno definitive le parti della norma che impone i pm di limitare la pubblicazione di parti di atti giudiziari (avete presenti le ordinanze di custodia cautelare zeppe di intercettazioni?) e l’applicazione delle manette agli imputati durante l’udienza. Sarà il giudice a decidere, speriamo con umanità e saggezza.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.