Credo che la crisi ucraina rilanci seriamente l’attualità delle riflessioni di Emmanuel Mounier, con il rigetto sia del bellicismo sia di un astratto pacifismo, e, soprattutto, ci aiuti a leggere bene l’articolo 11 della Costituzione, risalendo alle culture fondanti che l’hanno generata e all’esperienza della Resistenza europea che ne sta alla base. L’interrogativo chiave di partenza, in termini etico-politici, ma che illumina anche le riflessioni giuridiche, è come reagire al Male, alla volontà di potenza che si è espressa a Monaco l’anno precedente e che ha trovato le democrazie europee, Regno Unito e Francia, del tutto impreparate. Ovviamente non si può che essere contro i bellicisti, ma questo significa che dobbiamo aderire a una forma di ideologia pacifista, che punta su un tipo di pace che assomiglia a una resa?

Per rispondere a questa domanda, Mounier inizia criticando la Conferenza di Monaco che non ha affatto garantito la pace, ma esclusivamente «l’assenza di guerra armata». La cultura politica che vi si è espressa da parte delle democrazie occidentali è quella di un «pacifismo dei tranquilli», una «mediocrità» e un’«assicurazione contro ogni rischio», un’«utopia da sedentari». Questo esito è inaccettabile perché la forza è «una componente costante dei rapporti umani. […] Non esiste diritto che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza». Indubbiamente il cristianesimo punta ad allentare la «servitù della forza» per far prevalere altrimenti giustizia e carità, ma non è una pedagogia facile, immediata e neanche irreversibile: riemergono infatti costantemente «potenze oscure dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato». Oltre al bellicismo che sta dietro la sovranità statale occorre per Mounier anche prendere atto della distanza che separa «il realismo cattolico e una certa ideologia pacifista», giacché «al di fuori dei sentieri della santità integrale», dopo aver esperito seriamente tutte le alternative possibili, «può arrivare il momento in cui tali mezzi si rivelano definitivamente inefficaci» ed allora, solo a quel punto, «il cattolicesimo ammette la legittimità della violenza al servizio della giustizia».

Mounier vuole essere rigoroso e ricorda quindi le quattro condizioni poste dalla Chiesa cattolica (e che devono essere tutte compresenti) per ritenere giusta una guerra: autorità legittima, causa giusta intesa come riparazione di una grave ingiustizia e proporzionalità dei mezzi rispetto ai mali arrecati, retta intenzione ossia scopo di una pace giusta, necessità del mezzo bellico come unico per riparare l’ingiustizia. Tutto questo complesso apparato di criteri è necessario perché, e qui sta la conclusione chiave, per evitare la guerra non si può escludere a priori il rischio di guerra: «Il rischio è ovunque, salvo nell’avvilimento o nel suicidio deliberato. […] Deve essere corso, facendo al contempo uno sforzo tanto più eroico per scongiurarlo». Nonostante la diffusione di posizioni pacifiste radicali nel seno della Chiesa cattolica, eticamente apprezzabilissime sul piano individuale, e la necessità di un protagonismo diplomatico ed ecumenico della Santa Sede, che la porta, con il Pontefice pro tempore in carica, chiunque egli sia, a non polemizzare con nettezza nei confronti di Paesi aggressori, come oggi nel caso della Russia putiniana, la complessità descritta nella sua epoca da Mounier, pur con alcuni importanti aggiornamenti, resta al centro del Magistero odierno della Chiesa.

Il paragrafo 500 del Compendio della Dottrina sociale condiziona l’esercizio della legittima difesa anche alla sua ragionevole efficacia: essa va praticata quando «ci siano fondate condizioni di successo», cosa che ovviamente mira ad evitare forme di testimonianza estrema. Non si può tuttavia leggere questa osservazione in modo semplicistico, come se la valutazione fosse limitata al solo momento di un’aggressione e alle sue più immediate conseguenze: così sarebbe ammessa solo una resa senza condizioni. La Scrittura, del resto, ci presenta il caso di Golia, molto più alto e forte, ma con una capacità visiva inferiore a colui che lo sconfisse (Davide oppure Elcanan, a seconda delle diverse narrazioni). Chi vede più lontano sa che chi appare soccombente a breve non lo è necessariamente alla fine del percorso. La prima grande democrazia europea ad affrontare un processo costituente fu, come noto, la Francia della Quarta Repubblica. Il suo Preambolo, tuttora vigente perché richiamato da quello della successiva Costituzione del 1958, affronta quindi in modo pionieristico, i nodi segnalati da Emmanuel Mounier, in due distinti periodi: «La Repubblica francese, fedele alle sue tradizioni, si conforma alle regole del diritto pubblico internazionale. Essa non intraprenderà nessuna guerra in vista di conquiste, e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo. Con riserva di reciprocità, la Francia consente alle limitazioni di sovranità necessarie per l’organizzazione e la difesa della pace».

Il dibattito sul futuro articolo 11 iniziò in prima Sottocommissione il 3 dicembre 1946, con un testo di Dossetti chiaramente ispirato dal precedente francese. Togliatti fu però il primo a collegare logicamente e indissolubilmente i due aspetti: «Si tratta di un principio che deve essere affermato nella Costituzione, per chiarire la posizione della Repubblica italiana di fronte a quel grande movimento del mondo intero, che, per cercare di mettere la guerra fuori legge, tende a creare una organizzazione internazionale nella quale si cominci a vedere affiorare forme di sovranità differenti da quelle vigenti». La rinuncia alla guerra prende il suo senso nella costruzione di una nuova autorità legittima chiamata a rompere il sistema delle sovranità nazionali assolute. Il costituzionalista sturziano Carmelo Caristia lo tradusse immediatamente nella sua conseguenza normativa: propose ed ottenne di fondere i commi. Importante, però, per illuminare le culture politiche dei costituenti, è anche il dibattito sull’articolo 52 e più specificamente sulla bocciatura a larghissima maggioranza dell’emendamento pacifista radicale contro il servizio militare e per la neutralità perpetua presentato dal deputato socialista Arrigo Cairo. La proposta, che riecheggiava l’impostazione dell’articolo 9 del progetto di Costituzione giapponese, fu respinta il 22 maggio 1947.

Lungi dal congelare la Storia, la fine della Guerra fredda, ha ripresentato costanti dilemmi sui nodi della pace e della guerra. Si sono moltiplicate le situazioni di crisi in cui le democrazie occidentali si sono trovate a dover scegliere tra mobilitazione bellica e neutralità. Questi dilemmi si prestano male a sicurezze assolute e spesso i giudizi possono anche cambiare, perché una piena consapevolezza dell’impatto delle decisioni si può avere, tendenzialmente, solo dopo lo svolgimento degli eventi. Inoltre, non tutto ciò che è legittimo è di per sé opportuno e fecondo. Tuttavia, senza cadere in facili manicheismi, giova sempre ricordare che un Diritto imperfetto è sempre meglio di alcun Diritto. L’approccio delle culture democratiche che hanno fatto nascere la Costituzione, a differenza della sostanziale rassegnazione del bellicismo alle pulsioni peggiori della volontà di potenza e alla ricerca di perfezione del pacifismo astratto, fa propria l’importanza della battaglia per le cause imperfette teorizzata da Emmanuel Mounier secondo cui la “forza creatrice” dell’impegno nasce dalla «tensione feconda che esso suscita fra l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco. L’astensione è un’illusione. Lo scetticismo è ancora una filosofia: ma il non intervento fra il 1936 e il 1939 ha prodotto la guerra di Hitler. D’altra parte, la coscienza inquieta e talvolta lacerata che noi acquistiamo dalle impurità della nostra causa ci tiene lontani dal fanatismo, in uno stato di vigile attenzione critica. Il rischio che noi accettiamo nell’oscurità parziale della nostra scelta ci pone in uno stato di privazione, d’insicurezza e di ardimento che è il clima delle grandi azioni».

Estratto dalla prefazione al volume di Emmanuel Mounier, I cristiani e la pace, Castelvecchi, Roma, 2022