Nello stillicidio, dolente e implacabile, dei corpi che il mare pietosamente restituisce tra le braccia dei soccorritori di Cutro c’è un rituale tragico che si colloca oltre le morti, oltre il naufragio, oltre le colpe. È come se il mare che ha inghiottito tante vite, sazio di esistenze spezzate, volesse passare di mano quei corpi per consegnarli a chi ritiene più responsabile di sé, più implacabile e meno misericordioso di sé. Perché una domanda si pone sempre. Se l’ecatombe di vite a Cutro non è responsabilità di uomini e di istituzioni, allora vuoi vedere che è tutta colpa del mare, di quelle onde insidiose, delle secche invisibili di notte, del vento impetuoso che rende ingovernabili le carrette galleggianti.,.

Spiegava Fernand Braudel che esiste «un Mediterraneo più vasto che circonda e avvolge il Mediterraneo in senso stretto, servendogli da cassa di risonanza» (Il Mediterraneo, Bompiani, 2002), sono tutte le civiltà che su quel mare si affacciano, le più nobili e importanti della vita dell’uomo: «il Rinascimento si espande a partire da Firenze. Il barocco, figlio di Roma e della Spagna trionfante, invade tutta l’Europa, compresi i paesi protestanti del Nord. Allo stesso modo anche le moschee di Istanbul, e in particolare quella di Solimano, saranno imitate fino in Persia e in India. Ai margini del Mediterraneo maggiore sono così registrabili, in un certo senso, la grandezza e l’influenza propria del mare. Si risolvono da soli molti problemi del passato mediterraneo, a prima vista quasi irrisolvibili», quello dei fenici, degli egizi, dei greci, dei romani. Mezza Europa, mezza Africa, mezzo Medio-Oriente si affacciano sulle rive di un mare che è come un liquido amniotico, che genera vita, dispensa cultura, alimenta religioni, mescola razze.

Rispetto alla complessità, immane, delle questioni che l’immigrazione clandestina pone dagli esordi di questo terzo millennio, la repentina descalation mediatica dall’enfasi del blocco navale alla promessa regolazione dei flussi non offre alcuna risposta apprezzabile, né traccia il sentiero per una pur lontana soluzione. L’inasprimento delle pene per gli scafisti – gli unici mai arrestati perché i veri trafficanti vivono al riparo di paesi canaglia o di stati falliti che nulla possono fare contro di loro – è stata subito archiviata per quello che era, l’ennesimo fallo di frustrazione di una politica che quando non riesce a toccare palla reagisce minacciando l’avversario. Ha ragione l’avvocato Caiazza quando – dal punto di vista privilegiato della sua professione, più affidabile di molti report istituzionali – ricorda, che spesso gli scafisti non sono altro che kapò, sfruttati che sfruttano, poveracci che annichiliscono le vite di propri fratelli e delle proprie sorelle per qualche spicciolo o anche solo per un transito gratuito. E, infatti, tra i corpi che Cutro attende pietosamente ci sarebbero anche quelli di qualche scafista, inghiottito tra gli inghiottiti, vilipeso dal mare come le sue vittime.

La lotta di secoli con i flutti, le colonne d’Ercole, il Bosforo, il canale di Suez, i tentativi di rompere gli argini del Mediterraneo per renderlo meticcio, per mescolarne ancor di più le acque con l’immenso Atlantico, con il mar Nero, con il mar Rosso e di lì con l’inquieto oceano Indiano, tutto questo esprime e simboleggia di per sé una tensione insopprimibile alla diversità, alla mescolanza, all’integrazione che deve essere governata in modo nuovo, imprevedibile, intelligente. Joseph Roth ricordava la prima lezione di geografia, impartita dal suo vecchio docente del liceo, e la distinzione tra confini naturali e confini politici, la differenza tra la linea tracciata con un riga in una pianura e una catena montuosa e scriveva: «da molto tempo non sono più i confini naturali, ma soltanto quelli innaturali; i confini politici non sono più punti, linee, righe e così via, ma viae crucis, passioni, Golgota, crocifissioni: in una parola perquisizioni» (Viaggio ai confini dell’impero, 7 agosto 1919, trad. it.). Ecco, il Mediterraneo è stato trasformato da tempo in un confine innaturale, in uno spazio vuoto che dovrebbe tenere separati, distinti, lontani, incomunicabili.

Se non fosse che la forza della disperazione, la fame, la sete, le guerre violentano le intenzioni, annichiliscono i progetti segregazionisti, sbeffeggiano blocchi navali e cannoniere, annullano la burocratica regolazione di flussi che saranno presto l’ennesima carta straccia. Si impone imperiosa la necessità di rivisitare cosa siano gli Stati, quale sia la loro stessa legittimazione etica, politica, ideologica; si rende necessario comprendere che la globalizzazione ha da tempo distrutto dazi, miscelato economie, integrato le produzioni e che la Nazione, con i suoi vetusti e molli confini, resiste solo come recinto del privilegio, anfratto della ricchezza, scrigno dei patrimoni.

La guerra stessa tra Russia e Ucraina, la lotta sanguinosa per un confine, per un limite da valicare è sopraffatta dalla immensità degli interessi “altri” che la consentono e la alimentano. L’Europa degli Stati si mostra totalmente inadeguata alla missione storica che la attende e non riesce neppure a cogliere la portata della sfida che proviene dal sud del mondo come richiesta non di una semplice accoglienza, ma di una vera integrazione, di una condivisione per un destino inevitabilmente comune. Il mare, intanto, per parte sua centellina i corpi, li restituisce uno alla volta alla pietà dei soccorritori, impone di aggiornare una contabilità che molti vorrebbero archiviare al più presto. Parla una lingua che pochi comprendono.