Mentre ancora il mare restituisce cadaveri, perlopiù di bambini, sulla spiaggia di Cutro, avviene l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo Centrale, con trenta morti e diciassette persone salvate. La dinamica di questo evento sembra ripetere tragicamente una prassi ormai consolidata negli anni: le Autorità italiane quando ricevono una segnalazione di allarme per la presenza di un’imbarcazione in difficoltà, con vite umane a rischio, se la posizione geografica ricade nella cosiddetta zona SAR libica comunicano che il coordinamento e la responsabilità delle attività di salvataggio è assunto dalle Autorità libiche.

Sono anni che ciò accade, ma in questo caso grazie alla presenza dell’aereo Sea Bird che ha lanciato l’allarme e documentato tutte le comunicazioni tra le autorità dei diversi Paesi preposte al salvataggio, abbiamo la dimostrazione inconfutabile che i libici non hanno la volontà né gli strumenti per adempiere a questa funzione in base a quanto previsto dalle Convenzioni Internazionali. La stessa Guardia Costiera italiana, in una nota diffusa nel giorno del disastro, fa riferimento a “inattività dei libici”. Si smonta così la farsa della SAR libica: non può essere riconosciuta dalla Comunità Internazionale una zona di ricerca e salvataggio di un Paese le cui autorità non vogliono, non sanno, e non possono salvare le persone in pericolo di vita in mare. La tragedia consumatasi nella notte tra sabato e domenica dovrebbe quindi insegnarci che non va mai più lasciato il controllo di un’operazione di salvataggio nelle mani della Guardia Costiera libica. L’implicazione più ampia è che il Governo italiano dovrebbe immediatamente recedere dal Memorandum Italia-Libia, interrompere la fornitura di mezzi e risorse a Tripoli e promuovere presso le Istituzioni europee l’avvio di una missione di salvataggio comune.

Ma non è tutto. In questo caso il Centro di Coordinamento di Roma, di fronte alla totale assenza di intervento da parte dei libici, per circa trenta ore è rimasto ad assistere al compiersi di una tragedia annunciata, riagganciando il telefono all’ennesima chiamata di Sea Bird che segnalava il peggioramento della situazione. Di fronte a questo orrore è evidente che le Autorità Italiane avrebbero avuto l’obbligo di intervenire, e avrebbero dovuto farlo sulla base di due contrapposti ordini di ragioni: per supplire alla mancanza di intervento dei libici, e quindi evitare la morte di quelle trenta persone, ma anche in attuazione del nuovo articolo 12-bis introdotto dal Decreto Cutro, voluto dal Governo, in base al quale chiunque effettua il trasporto illegale di persone verso lo Stato italiano, nonché verso altri Stati, con modalità tali da mettere a rischio la vita delle persone, è punito con la reclusione da venti a trent’anni, se dal fatto deriva la morte di una o più persone, anche al di fuori del territorio italiano. In base a queste considerazioni stiamo valutando con il supporto di giuristi ed avvocati la presentazione di un esposto perché anche in sede giudiziaria siano accertate le eventuali responsabilità.

Nell’ultima settimana abbiamo così assistito a due diversi scenari. Nel primo caso ha perso la vita un numero di persone che non si è ancora riusciti a definire, a poche decine di metri da una spiaggia calabrese, e il Governo non ha ancora spiegato davanti al Parlamento e al Paese perché la Guardia Costiera italiana non sia mai uscita in mare a cercare l’imbarcazione in difficoltà. Nel secondo caso, dopo l’osceno scaricabarile verificatosi tra libici e italiani, di cui si è saputo solo grazie alla presenza di una ONG, è andato in scena un vero e proprio cortocircuito giuridico in cui il Governo, che da un lato istituisce un reato universale, con la pretesa di perseguirlo in tutto il globo terracqueo, dall’altro non riesce a tutelare le vittime di quel reato e, al contrario, lo agevola astenendosi da qualsiasi intervento. Siamo curiosi di capire se la magistratura italiana opterà per perseguire l’omissione di soccorso o il favoreggiamento e se, considerata la documentata commistione tra Guardia Costiera libica e trafficanti, si spingerà a effettuare indagini in Libia. Nel frattempo il 6 febbraio i ministri Piantedosi e Tajani hanno consegnato ai libici con una bella cerimonia l’ennesima motovedetta, una di quelle inaffondabili.