Era chiaro che con quest’ultima strage, che drammaticamente non sarà l’ultima, si sarebbe riaffermato con tanta più forza l’assunto balordo, politicamente indecoroso e intellettualmente vigliacco, secondo cui “la colpa è degli scafisti”.

E la notizia dell’arresto, l’altro giorno, del diciassettenne pakistano che avrebbe coordinato “gli spostamenti dei migranti in territorio turco fino all’imbarco”, e poi avrebbe collaborato a gestirli “a bordo dell’imbarcazione su direttiva degli scafisti”, arriva a guarnizione perfetta e provvidenziale di quel racconto osceno: la storia dell’Italia ministeriale, materna, bianca e cristiana perfettamente adempiente ai propri doveri e inflessibile nell’intendimento di spezzare le reni allo spregiudicato adolescente che specula sulla tratta dei poveracci.

Ed era non solo prevedibile, ma certissimo, che avrebbero adoperato le parole del Papa per certificare la legittimità, e a questo punto anche la santità, dei programmi di respingimento e delle politiche che individuano nei cosiddetti scafisti i responsabili esclusivi delle stragi di migranti. Che poi il Papa si riferisse ai “trafficanti di esseri umani”, e cioè a una realtà ben più vasta e organizzata rispetto agli armatori delle tinozze su cui è caricata questa gente, è ovviamente un dettaglio che sfugge alla demagogia che usurpa l’Angelus per spiegare che i naufragi si evitano affondando i barconi. Per non dire del fatto che a far traffico di esseri umani sono anche gli Stati – e l’Italia è uno di questi Stati – che se li rimpallano e li smistano al nobilissimo fine di non averli tra i piedi: e pace se finiscono nei lager, che è il nostro modo di aiutarli a casa loro. Ma se c’è una volta che va bene parlare di “capro espiatorio”, è questa volta.

La linea governativa, ma sostanzialmente condivisa anche presso quel progressismo che reclama “rigore” per non lasciare alle destre il monopolio dell’allarmismo sicuritario, vuole che il problema capitale – e il nemico numero uno – sia lo scafista, che è un ottimo espediente per non discutere delle evidentissime responsabilità del bell’ordinamento che ha fatto venticinquemila morti in un decennio scarso, non casualmente sottoposto alle cure di governi di ogni colore. E non che siano da lasciar liberi e da mandare assolti quelli che partecipano alla tratta di esseri umani, ma far credere che il problema sia quello è come dire che il responsabile del sistema schiavista è il liberto che inquadra i suoi simili mentre l’acquirente li passa in rassegna, o che la morte dei deportati durante il viaggio verso la piantagione schiavista è colpa dell’ultimo disgraziato che per paura, per fame o perché vi è costretto dalla minaccia, collabora con il negriero per raccoglierli su una riva africana.

Non c’è bisogno di nessun atteggiamento assolutorio per dire che il guardiano a cavallo, col fucile sotto braccio e il virginia in bocca a sorvegliare il lavoro dei neri incurvi sul cotone era il meno responsabile di altri nella società che considerava ammissibile la riduzione a stato bestiale degli esseri umani. E non bisogna essere capziosi, ma solo appena onesti, per sapere che la degradazione di un mondo che facciamo finta di non conoscere – ma è proprio quello da cui provano a scappare questi disgraziati – coinvolge necessariamente anche chi, magari ragazzino, si fa manovalanza dell’ignominia.

Non senza ripetere, infine, che sulla caccia allo scafista bisognerebbe avere il coraggio di dire in che modo abbiamo troppo spesso ritenuto di attuarla, e cioè allungandogli del denaro per fare un lavoro anche più schifoso ma per noi molto utile: la riconversione aziendale da trasportatore di carne umana a magazziniere, così i migranti anziché venire da noi tornavano ad essere affidati agli aguzzini dei campi di concentramento. E poi – e questo lo hanno fatto con pari sfrontatezza e con analoga rivendicazione sia a destra, sia a sinistra – il bel vanto del calo degli sbarchi in faccia all’elettorato. Per il lavoro sporco andavano bene, gli scafisti. Per quello che ci sporca le spiagge, no.