Secondo il giornale di De Benedetti (un Fatto minore che celebra Conte addirittura come leader del “socialismo liberale”) occorre andare al più presto al voto anticipato e consegnare all’oblio Draghi. Questa celere rimozione del governo poco apprezzato è la speranza anche del Pd e dei suoi alleati che vagano con “i patrioti” alla ricerca del responsabile del Conticidio.

La comprensione della fase politica è molto confusa tra gli attori. Il governo tecnico o senza formula politica è la variante italiana dei governi di grande coalizione. La parentesi consociativa interviene come un momento di tregua che si prospetta per la mancanza di una “normale” agibilità politica secondo i canoni bipolari. Certo, sarebbe auspicabile il perfetto funzionamento della meccanica bipolare, con il bel gioco dell’alternanza tra campi reciprocamente esclusivi. È vero anche che sarebbe del tutto preferibile, secondo una logica pura della democrazia maggioritaria, schivare le incognite che sempre accompagnano i governi di larga coalizione. Ma le condizioni date al momento marciano altrimenti. Le piccole cose empiriche vedono il logoramento delle formule politiche (ben 3 consumate in soli tre anni), e le crisi di governabilità impongono soluzioni emergenziali che reclamano la funzione creativa del Quirinale. Il castello di carta del bipolarismo non può occultare i processi reali di scomposizione che vanno invece interpretati secondo le loro caratteristiche specifiche.

Entro la parentesi tecnica o di tregua è intervenuto un primo mutamento sistemico: l’area di legittimazione, che ricomprende le forze in grado di adottare una intesa pro-sistema nelle giunture critiche (e quindi Pd e Fi), si è allargata sino al M5S (dall’originario no ad ogni alleanza, il non-partito approda alla disponibilità a sostenere qualsiasi intesa di governo) e alla Lega (con i suoi contorcimenti propagandistici il capitano è stato indotto dagli amministratori del nord a una prova di responsabilità). E dal campo della legittimazione è esclusa solo la formazione di Giorgia Meloni che rimane la sola forza anti-sistema ma lo fa per una vocazione autonoma all’alienazione politica. I rischi (di un eterno equilibrio centrista) che scandiscono il tempo del governo di larga intesa sono evidenti ma essi non sembrano giustificare l’invito del foglio di De Benedetti a mandare tutto all’aria. L’abbraccio trasformista che tutti coinvolge nella cogestione governativa, presenta dei risvolti sistemici che si sono comunque accumulati. Dopo la compartecipazione al governo occorre riprogettare su basi nuove le condizioni per il rilancio di uno schema destra-sinistra oltre la bonaccia trasformista.

Alle origini delle emergenze e delle soluzioni di tregua c’è la mancanza, se non di un partito borghese-conservatore, di una coalizione politica in grado di interpretare anche gli interessi di classe medi del capitale, cioè non di proteggere una singola azienda con un partito personale-patrimoniale o di accennare alla rappresentanza di interessi ristretti del mondo della microazienda del nord. Gli interessi medi di classe, caduta l’influenza egemonica della grande impresa, tramontati i grandi partiti di mediazione, sono trascurati dal momento populista che tutti contagia. Per questo le considerazioni di sistema o della accumulazione nel lungo periodo vengono imposte ai micro-partiti solo con le soluzioni apparentemente tecniche. Per la pressione dei vincoli di sopravvivenza del meccanismo economico, le parentesi tecniche (che tali non sono affatto: hanno un forte connotato economico-sociale) spingono ad adottare misure di razionalizzazione secondo una prospettiva più lunga di valorizzazione.

Il momento populista vede la prevalenza, in ogni formula di governo adottata negli ultimi anni, di politiche economiche ristrette che, per ragioni di scambio tra consenso particolaristico e misure legislative e fiscali favorevoli, urtano con le esigenze di sistema misurate nel medio-lungo periodo. Lo squilibrio tra politica ed economia, tra coalizione sociale e formule politiche, sembra il dato genetico della crisi di sistema che viene tamponata con i governi a composizione tecnica che sono ritenuti dalle élite, inserite in un contesto istituzionale-relazionale europeo ma gracili nel consenso effettivo, in grado di interpretare le istanze sistemiche del capitale. Il governo gialloverde (cogestione per contratto tra politiche di redistribuzione e miraggi di flat tax) vedeva all’opera una maggioranza votata alla decrescita e quindi tale da ampliare i pericoli di caduta nella perifericità per un sistema industriale vulnerabile. Anche lo Stato sussidiario inseguito dalla coalizione giallorossa si configurava come una sorta di “patto tra gli improduttori” che distribuiva risorse ma a debito e quindi sotto il ricatto di investitori internazionali.

I governi Conte I e II sono saltati, ed entrambe le formule adottate nel corso della legislatura sono implose, perché le ipotesi politiche perseguite dai contraenti erano diventate socialmente e economicamente insostenibili. Sussidi elargiti nella decrescita di una stagnazione trentennale, consumo e ozio creativo nell’onda della de-industrializzazione e della differenziazione territoriale possono attrarre i voti degli esclusi, non garantiscono però la crescita che solo può rendere sostenibili i progetti redistributivi, gli investimenti, le politiche industriali. E quindi i crampi del sistema, al cospetto di reazioni negative degli operatori finanziari che si trovano dinanzi a politiche di spesa a debito, sollecitano un intervento esterno necessario per la sopravvivenza del meccanismo capitalistico sempre più interconnesso. Per la sua conclamata inefficienza, e per i suoi costi elevati che ostacolano l’innovazione e le politiche espansive, il populismo sembra in ogni istante sul punto di sparire e invece l’onda antipolitica si rialimenta ogni volta con vecchi o nuovi interpreti. Questo accade perché la mediazione politica stenta a ricomparire e il virus del populismo come metodo di (mal)governo attecchisce ovunque, persino nella Cgil, che, accantonando la salutare cultura del conflitto di classe, è costretta ad approdare a una simbologia populista (sindacato di strada, custode dei diritti, welfare aziendale) indifferente ai nodi della innovazione e della crescita.

Se attorno alla tregua tecnica, che in realtà ridisegna le condizioni di base per la ripartenza del meccanismo capitalistico ossificato da trent’anni, il sistema dei partiti e dei soggetti sociali è lasciato al suo stato di fluidità non ci sono concrete speranze: il populismo ritorna dopo l’illusione di un accantonamento momentaneo della fuga nella irrazionalità. Il patto “sussidiario” Pd-M5S e la destra securitaria nelle sue attuali leadership appaiono in evidente contrasto con le esigenze di un governo del moderno capitalismo degli algoritmi. Per come sta interpretando il suo ruolo, Draghi sembra consapevole dei limiti delle precedenti esperienze dei governi senza formula politica. Se si trasforma in Monti, e scambia davvero il governo per una questione tecnica che nel segno di un neo-illuminismo celebra la sua superiorità sulle volgari aspettative delle parti sociali, allora non ci sono alternative: Salvini e Meloni possono continuare nel duello per prendere le redini.

Anche lo spettro di Ciampi deve essere però evitato per scongiurare che, dopo il lavoro di emergenza condotto dal “super tecnico” che risana il capitalismo italiano, si presenti ancora una volta il comico a proseguire il tempo infinito del populismo che ha quale causa la decrescita economica e poi, con i suoi gesti nelle istituzioni, la conferma come un dato oggettivo inalterabile. Dopo l’abilità politica mostrata da un pragmatico Draghi, diventa difficile immaginare che la maggioranza del paese continuerà in futuro a rimanere incantata dalle suggestioni pistolere di Salvini o dalle battaglie di libertà di contagiare intraprese da Giorgia Meloni sulle note dei filosofi della biopolitica egemoni nei fogli della Gedi in rivolta contro la democrazia totalitaria ed emergenziale. Anche le lotterie degli scontrini e i bonus monopattini sembrano cose d’altri tempi. Gli interessi compositi di un paese industriale non sono tali da lasciarsi a lungo trascinare nei luoghi mitici delle semplificazioni populiste (bonus, sicurezza). E però questo salto richiede politica, non è un dato scontato.

Sinora Draghi ha mostrato che è possibile governare senza lo spartito di uno storytelling e al riparo della dittatura della comunicazione ingannevole. Per il ripristino del principio di realtà c’è bisogno però di una ricostruzione del sistema politico (e di un sindacato del conflitto). Nel Pd è invece forte l’investimento per Conte e dunque il proposito di lasciare Draghi per strada, come accadde con Ciampi, è evidente. Solo attorno all’esperimento Draghi si possono ridefinire le nuove culture politiche. La sua riforma-ristrutturazione del capitalismo italiano potrà favorire anche la ridefinizione di una moderna sinistra del conflitto e della mediazione secondo un paradigma che il Pd ha smarrito. Senza cultura politica il Pd ha rinunciato a rappresentare il lavoro stimolando al contempo la formazione di nuove forze produttive (con meno del 60 per cento di popolazione attiva, 15 punti sotto la Germania, è ardua ogni politica redistributiva o destinazione di risorse per beni pubblici e comuni).

Solo il ristabilimento delle cornici della crescita, e di una economia con ritrovata competitività, consente una ripresa del grande conflitto sociale e politico per quella che Marx chiamava “la modesta magna charta del lavoro” (salute, istruzione, tempo, salario). Sono problemi rilevanti al cospetto dei quali evidente appare l’anacronismo di una sinistra senza pensiero che molla Draghi perché scambia Conte per un socialista liberale e il suo padre Pio per un teologo della liberazione.