La pubblicazione del bilancio sociale della Procura della Repubblica di Napoli induce ad alcune riflessioni sulle ragioni della lentezza e inefficienza della macchina giudiziaria. Premesso che è stata fatta un’apprezzabile operazione di trasparenza, con la quale il più grande ufficio inquirente d’Italia ha comunicato gli esiti dell’attività svolta, va innanzitutto evidenziato l’enorme sproporzione tra le risorse assegnate per le attività d’indagine e quelle destinate agli altri uffici giudiziari. Indagare è un obbligo, ma anche giudicare in tempi ragionevoli e con mezzi adeguati lo è. Tale dovere e onere, però, non preoccupa affatto il Ministero che fornisce alle Procure strumenti tecnologici all’avanguardia per penetrare nella vita privata degli indagati, mentre nei Palazzi di Giustizia mancano il personale e i mezzi per svolgere, in maniera dignitosa e con le dovute garanzie, i processi.

Con un esempio, che non sembri blasfemo, ma che può rendere l’idea di quanto in concreto avviene, si potrebbe paragonare il Ministro della Giustizia a un imprenditore che investe il capitale e gran parte delle risorse a reperire le materie prime per iniziare la lavorazione del prodotto, ma non si preoccupa affatto di vedere il manufatto finito o, comunque, se pur finito, non si interessa della sua qualità. Indagini complesse, tanto lunghe quanto costose, producono fascicoli di migliaia di pagine e, ove ci sono intercettazioni, migliaia di file audio. La chiusura delle indagini rappresenta il momento in cui l’avvocato può prendere visione degli atti, attività che va esaurita in venti giorni, a fronte di investigazioni durate diversi anni. Tale evidente sproporzione di tempo a disposizione tra l’”accusa” e la “difesa” – che si riduce maggiormente (soli dieci giorni) se si deve impugnare un’ordinanza di misura cautelare – ha un’aggravante non indifferente, cioè la copia degli atti. Attività per la quale è necessario altro tempo e il pagamento dei diritti di cancelleria.

Spesa questa, affatto irrisoria, che va sostenuta dall’indagato/imputato che, pur se assolto, non verrà rimborsato di alcunché. Ove condannato, invece, dovrà pagare le cosiddette “spese di giustizia” in cui sono comprese, tra le altre, quelle sostenute dalla Procura. Il cosiddetto “patrocinio a spese dello Stato” copre una fascia del tutto esigua di popolazione, quella con un reddito annuo imponibile non superiore a 11.493,82 euro e consente di rivolgersi non a tutti gli avvocati, ma solo a legali iscritti nell’apposito albo. Più aumentano le spese delle indagini, dunque, più sarà onerosa la difesa. L’attuale emergenza sanitaria ha evidenziato le croniche deficienze del sistema Giustizia, ancorato a procedure medioevali. Per fare un esempio, ma ce ne sarebbero tantissimi, le cancellerie inviano al difensore, a mezzo pec, l’avviso di deposito di un atto e non l’atto stesso. Per averlo sarà necessario recarsi in cancelleria, depositare istanza, pagare i diritti e, dopo alcuni giorni, tornare per ottenere la copia. In un mondo online, quello penale è da tempo fermo e il flusso di risorse va in un’unica direzione, l’unica che interessa davvero, per la falsa immagine di una giustizia efficiente.

Nella “riservatezza” di uno studio televisivo è importante che le intercettazioni – atti che dovrebbero essere coperti da segreto istruttorio – siano di qualità, poco importa se poi non ci saranno le risorse per celebrare il giusto processo, perché manca ovvero non funziona la strumentazione necessaria nelle aule. Il tempo della notizia è quello delle indagini; l’altro, quello del processo, non interessa. Ancora meno se vi sarà una sentenza di assoluzione. Nel mondo giudiziario, dunque, esiste un gigante, con rilevanti risorse, a cui deve essere assegnato uno spazio proprio, che non interferisca con le altri componenti dell’ordinamento. Solo separandolo dal resto ne verrà individuato il reale potere che sarà circoscritto alle sue funzioni e non invaderà altri spazi, come le cronache di questi giorni – e non solo – hanno dimostrato.