La prima cosa da dire è che finiranno per non cambiare nulla se continueranno a raccontarci che Palamara è un caso. Non è vero, non era un caso, era la regola. L’unica cosa singolare delle chat del telefonino che ha sconvolto il mondo della magistratura è il linguaggio da adolescente millennial comprensivo di faccine che utilizzano signori fatti e finiti. Ma forse neppure quello ad essere sinceri: ognuno di noi ha il cellulare pieno di faccine e male parole scambiate senza freni inibitori con amici e conoscenti. Roba che, peraltro, in un Paese serio sarebbe rimasta comunque riservata, e ciò va ribadito tanto per marcare la doverosa distanza da quella stampa “garantista” che bestemmia contro il trojan finché non gli serve a sputtanare il nemico. Così come, mai come in questa occasione, è necessario chiarire che il troian non dovrebbe servire a fare il check up morale di nessuno: neppure di Palamara né della magistratura.

Per il resto, quello che racconta quel cellulare, dalla concezione proprietaria della giustizia che è propria della magistratura da decenni, ai rapporti stretti con esponenti politici, per finire con la deriva cencelliana delle correnti, era un segreto di Pulcinella che va avanti da quando Luca Palamara era all’asilo e solo qualche sepolcro imbiancato può raccontare la favola del compagno che sbaglia ma il popolo (cioè la magistratura) non c’entra. Ed è inutile stare lì a fare le orazioni sul fatto che esistono centinaia di magistrati laboriosi e schivi, che non vanno allo stadio o in trattoria coi vip, che non chiamano il capo corrente per avere un posto, che non hanno il giornalista – o il giornale – di riferimento, oppure rapporti stretti col mondo della politica; e infine che non fanno o chiedono raccomandazioni.

Certo che esistono, solo che non rappresentano il sistema di potere che si è sedimentato all’interno della magistratura e attorno ad essa. Anche durante la Prima Repubblica c’erano italiani che non cercavano raccomandazioni per evitare il servizio militare o per trovare lavoro. Identicamente c’erano militanti di partito che non avevano a che fare con le tangenti. Però il sistema era quello e lo teneva in piedi la maggioranza degli italiani che, servizio di leva a parte, non è che siano molto cambiati. Checché ne pensino i millenaristi di professione – che da noi hanno sempre una certa, temporanea, fortuna in politica, da Guglielmo Giannini fino a Grillo – la degenerazione di un sistema non riguarda solo la sua classe dirigente ma investe direttamente i rappresentati.

Ed allora, con il permesso delle madamime dei media di destra e di sinistra – che sferruzzano articolesse moralisteggianti , o intemerate a favor di telecamera sperando che il trojan non infetti qualche altro cellulare che spiegherebbe le carriere e le miserie loro – il problema, come avrebbe detto Riccardo Lombardi, è che ci vuole “una riforma di struttura”. È la struttura costituzionale ed ordinamentale della magistratura che ha permesso, prima ancora di Tangentopoli, l’esondazione e la deriva di potere dell’ordine giudiziario. Ed è lì che si deve intervenire, non con i pogrom antimagistrati o, peggio, con gli autodafé. Bisogna agire sui capisaldi: struttura e composizione dell’organo di governo autonomo per l’affermazione della terzietà del giudice rispetto alle parti e il contenimento della deriva corporativa dell’organo costituzionale; istituzione di una Alta Corte di Disciplina esterna al Csm; accesso laterale in magistratura di soggetti esterni provenienti dal mondo dell’avvocatura e dell’accademia; ridefinizione dell’obbligatorietà dell’azione penale; divieto di rientro in magistratura dopo esperienze politiche; limitazioni rigide al collocamento fuori ruolo dei magistrati.

Roba che presuppone una certa idea della giustizia che purtroppo è estranea alla maggioranza della classe politica, è invisa alla stragrande maggioranza dei magistrati ed è anche ostica alla comprensione della pubblica opinione. Ma, proprio come dicevano i riformisti seri, è dalle modifiche di struttura che nasce una diversa cultura. Anche quando si iniziò a parlare di divorzio ed aborto la società italiana era in maggioranza, a destra e sinistra, del tutto avversa a tali temi. Ci volle un lavoro politico serio, e gente – come Pannella – non disposta a barattare principi per una cadrega, per imporre quelle scelte che a loro volta hanno accompagnato e fatto affermare un diverso sentire fino a farlo diventare proprio della generalità dei cittadini. E su questo il sistema della informazione gioca un ruolo fondamentale. Limitandosi a guardare dal buco della serratura del cellulare di Palamara, oppure fermandosi alla trita retorica dei piagnistei anticasta, la stampa sta perdendo l’ennesima occasione per confrontarsi con una idea liberale della giustizia che gli è sostanzialmente aliena.

Così come è estranea non solo, ovviamente, all’ala manettara dello schieramento politico che, oltre ai 5Stelle, comprende una buona fetta della sinistra italiana e i tanti garantisti a dondolo del centrodestra, ma persino quelli che sul garantismo hanno fatto, almeno a parole, un investimento politico, come Italia Viva. Il Renzi che rimprovera a Bonafede la retorica del sospetto, ma poi gli salva la poltrona rivendicando come un merito di aver fatto morire Provenzano in carcere, si dimostra più un campione del peggiore trasformismo democristiano che un erede di Calamandrei, per capirci. Per un dibattito serio su una questione altrettanto seria ci vogliono, poi, interventi istituzionali di pari livello. Giorgio Napolitano ammonì più volte il Parlamento sulla necessità di una riforma strutturale della giustizia, e lo fece perché aveva sotto gli occhi la degenerazione del sistema, la sua inefficienza ed anche i misfatti legati ai rapporti tra il mondo della giustizia e l’informazione che fecero morire di dolore Loris D’Ambrosio.

Proprio ieri è intervenuto l’attuale Presidente della Repubblica rammentando di aver già da tempo auspicato una riforma «delle regole di formazione del Csm» ma al tempo stesso rispedendo al mittente gli inviti a sollecitare una legge che preveda “criteri nuovi e diversi” per la formazione di tale organo ricordando che questo compito è affidato al Parlamento. Peccato, è una occasione persa, se avesse agito come il suo predecessore sarebbe stato un passo avanti. Questa vicenda viene da lontano e non è una faccenda di mele marce e raccomandazioni: è una crisi strutturale che va avanti da decenni e richiede interventi di pari livello. Il rischio, infatti, è che tutto si risolva nell’ennesima, truffaldina, instant law, magari sui meccanismi elettorali del Csm. Un’altra di quelle leggine reattive, simboliche e demagogiche, cui ci hanno abituato gli incompetenti al potere che darebbe la magistratura in mano a Davigo e i suoi. Come dire dalla padella alla brace.