Ogni anno il 20 giugno, giornata dedicata dalle Nazioni Unite ai rifugiati l’Unhcr. presenta il proprio rapporto annuale. In quello di quest’anno viene evidenziato che “alla fine del 2021, le persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni di diritti umani risultavano essere 89,3 milioni, un aumento dell’8 per cento rispetto all’anno precedente”. Un dato già drammatico ma sono bastati i soli primi 5 mesi del 2022, a causa della guerra in Ucraina e dell’acuirsi di altri conflitti, per sfondare già il tetto dei 100 milioni. Solo dieci anni fa, nel 2012, il numero dei migranti forzati superava di poco i 40 milioni. Da allora si registra ogni anno un aumento che pare inarrestabile dovuto principalmente all’esplosione di nuovi conflitti e al riacutizzarsi di quelli già esistenti da tempo (sono 23 i Paesi teatro di guerre di intensità media o alta).

Non solo Ucraina dunque; dirlo è forse ovvio ma temo necessario. Così come va ricordato che l’83% di tutti i migranti forzati si trovano in paesi del Sud, poveri e poverissimi; altro che invasione dell’Europa. Solamente quest’anno, con l’irrompere della guerra in Ucraina, l’Europa ha dovuto fare i conti con un serio afflusso massiccio di persone in fuga da una guerra. Con questo articolo propongo un primo bilancio di quanto accaduto con la crisi ucraina e cosa essa ci può insegnare per cambiare il sistema di asilo nella Ue. Il dramma dei profughi ucraini infatti ha fatto emergere, e nello stesso tempo ha dissolto, tutti i principali fantasmi che hanno agitato la vita politica europea da vent’anni; a iniziare dai numeri: in soli quattro mesi sono entrate nella UE circa 5,3 milioni di persone; un flusso che sia per numeri assoluti che per concentrazione temporale non ha paragoni con il recente passato, potendo essere accostato, ma solo in parte, all’arrivo dei rifugiati siriani del 2015.

Quell’evento fu vissuto come uno shock da parte delle istituzioni europee che al grido di “mai più” misero in atto ogni azione, lecita e non, per bloccare i rifugiati nei paesi terzi, dalla Turchia alla Libia, e per respingerli alle nostre frontiere. Non solo in Italia ma diffusamente in Europa ogni arrivo di rifugiati, anche se in dimensioni venti, trenta volte inferiori a quanto avvenuto con gli sfollati ucraini, provoca spaventose tensioni e isterie collettive che alimentano nuove paure e nuove scelte di chiusura in una spirale che si auto alimenta. Eppure, come se si fosse trattato di un grande esperimento socio-politico, l’arrivo massiccio degli sfollati ucraini ci dice che, con le inevitabili difficoltà legate a ogni grande cambiamento, possiamo gestire, nel vecchio – e sempre meno abitato – continente, arrivi improvvisi anche di milioni di persone senza che “lo stile di vita europeo” per usare una nota e discutibile espressione, rovini nella polvere.

Va ricordato che in tutta Europa a fine 2021 il numero totale dei richiedenti asilo era di solo 760mila persone. Certamente dunque potremmo gestire ogni anno in modo ordinato arrivi di rifugiati in dimensioni significative realizzando un sistema europeo di ingressi protetti e programmati disciplinati da normative che fissino procedure e diritti. Potremmo in sostanza fare proprio ciò che non abbiamo mai voluto fare, contribuendo a sanare in parte quell’odioso squilibrio di responsabilità che, come evidenzia il rapporto globale 2021 ci contrappone al sud del mondo dove sono ammassati l’80% di tutti i rifugiati come ricorda il citato rapporto Unhcr. I profughi dall’Ucraina sono entrati nella Ue e sono andati dove hanno voluto. In difformità da quanto prevede la stessa Direttiva 2001/55/CE i paesi europei non hanno fornito le proprie quote, né sono stati attuati programmi di ricollocamento neppure laddove, come in Polonia, si sono prodotte concentrazioni oggettivamente eccessive.

Si è verificata una sorta di inedita auto-distribuzione attuata dai profughi anche spostandosi da uno Stato all’altro in una sorta di ritorno all’asylum shopping e con continui “movimenti secondari”. Da due Legislature le istituzioni europee non riescono a trovare una soluzione per la riforma del Regolamento Dublino III ovvero per cambiare gli inefficienti criteri attuali applicati per individuare il paese competente ad esaminare la domanda di asilo di un richiedente quando entra in Europa mentre del rifiuto di ogni forma di solidarietà e di condivisione delle responsabilità molti Stati hanno fatto la loro bandiera politica da difendere ad oltranza. Un dibattito senza fine: quote obbligatorie si ma solo in caso di grave crisi; quote obbligatorie mai;; o infine “ricollocazioni (il metodo di solidarietà preferito) e contributi finanziari” come si legge nella dichiarazione sottoscritta da dodici Stati l’11 giugno scorso. Su questo scenario di continui confronti senza esiti ha fatto irruzione il più massiccio numero di sfollati della storia dell’Unione Europea e ogni discussione è cessata di colpo.

Anzi, non è mai neppure iniziata. Gli sfollati ucraini sono andati dove volevano; non abbiamo creato per loro centri di detenzione violenti e degradati, scorte armate per accompagnarli nel paese di assegnazione come facciamo abitualmente nel triste gioco degli scambi dei richiedenti asilo (o forse dovremmo dire di ostaggi) in atto tra i diversi paesi dell’Unione. Per l’esattezza gli sfollati ucraini sono andati non dove volevano perché non di turisti si tratta bensì dove avevano legami famigliari, parentali, amicali, di comunità. Ciò ci ha portato a scoprire un’altra semplice verità che abbiamo sempre osteggiato ferocemente per anni negando il valore ai legami significativi dei rifugiati, separando le famiglie allargate, impedendo persino che il figlio maggiorenne vivesse con la sua famiglia o almeno nello stesso paese se per dannata casualità nella fuga era finito altrove. Parimenti abbiamo rifiutato che i potessero avere valore propri precedenti soggiorni per lavoro o studio dei rifugiati in uno stato dell’Unione e li abbiamo forzatamente inviati dove non sapevano la lingua né conoscevano nulla del Paese.

Abbiamo negato che le catene migratorie esistano o abbiamo agito per spezzarle; per darci delle giustificazioni dicevamo di farlo per evitare concentrazioni mentre di concentrazioni ne creavamo di ben peggiori ed artificiali mantenendo l’irrazionale criterio che lega la competenza ad assicurare protezione al primo paese dell’Unione nel quale la persona mette piede non per scelta ma perché la geografia è un fatto. La maggior parte degli sfollati ucraini ha raggiunto la propria rete di riferimento e si sono stretti nelle stanze dell’amico o del parente o solo del connazionale. In Italia ciò è avvenuto in misura anche maggiore che in altri paesi Ue perché i posti di accoglienza forniti dal sistema pubblico sono in numero minimo rispetto al numero complessivo degli sfollati (4530 nel SAIex SPRAR e poco meno di diecimila nei centri prefettizi) ma la ragione principale va ricercata nel fatto che le persone preferiscono un’accoglienza, anche precaria, ma dove possono mantenere relazioni e legami.

Con un po’ di tardiva saggezza si è dunque provveduto, con il DL 21.3.22 n. 21 e successive ordinanze di protezione civile (non ho lo spazio in questa sede di esaminare l’efficacia delle misure assunte) a sostenere economicamente, seppure con contributi modesti, gli stessi sfollati che vivono presso privati e a riscoprire sottovalutate forme di accoglienza come l’accoglienza diffusa e solidale in famiglia organizzata da enti del terzo settore (raccogliendo a fine maggio ben 17mila posti di teorica disponibilità). Abbiamo così infine scoperto un’ennesima altra realtà rimasta sotto traccia, ovvero che è distorto quell’immaginario che vede i rifugiati solo e sempre aggrapparsi al sistema di assistenza pubblica e che possono esistere forme di accoglienza più efficaci e anche meno costose dell’invio dei profughi nei centri di emergenza e nei casermoni dove isolarli dal mondo esterno.

Qualcuno dirà che non sto considerando che gli sfollati dall’Ucraina che godono del regime giuridico della protezione temporanea sono diversi dai richiedenti e dai titolari di protezione internazionale. Rispondo dicendo che ben conosco queste suddivisioni giuridiche ma propongo di adottare uno sguardo più ampio. Anche se incaselliamo i migranti forzati in condizioni giuridiche diverse (e a volte lo facciamo con buone ragioni, altre volte no), a ben guardare la fuga degli ucraini dalla guerra che infuria nel loro paese a seguito dell’aggressione della Russia non è così diversa dalla condizione di milioni di altre persone in fuga da altri conflitti. Una soluzione semplice e valida per ogni occasione non c’è e certo non è mia intenzione sottovalutare il peso delle differenze in termini di contesti di provenienza, di aspettative da parte dei rifugiati, di inquadramento giuridico come di prospettive di soluzione (per esemplificare: fuggire dall’Ucraina non è uguale a fuggire dall’Afghanistan).

Tuttavia da quanto sta accadendo con la gestione dei profughi dall’Ucraina arrivati nella Ue possiamo però imparare molto se lo vogliamo, iniziando per prima cosa a liberarci dai cupi fantasmi politici e culturali che ci hanno portato al limite del crollo del nostro sistema giuridico di tutela dei diritti fondamentali e sul quale si fonda il progetto politico di costruzione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia. Infatti anche oggi mentre scrivo queste riflessioni ai confini della Polonia verso est vengono fatti entrare i profughi dall’Ucraina mentre vengono respinti, illegalmente e nel colpevole silenzio generale, i rifugiati di altre guerre, persino se il loro numero è risibile.

I nodi di fondo di una politica comune di asilo nella UE rimangono come garantire l’accesso al diritto d’asilo a chi arriva alle nostre frontiere, realizzare procedure di ingresso protetto, attuare se necessario una distribuzione delle presenze e realizzare forme efficaci di accoglienza di coloro che fuggono da conflitti armati interni o internazionali. La crisi ucraina ci dice molto di cosa non dobbiamo più fare e di cosa potremmo invece scegliere di fare per attuare riforme profonde, per cambiare il logoro sistema unico di asilo nella UE in modo più aperto ed inclusivo, nell’interesse tanto dei rifugiati che dei cittadini europei.