Lenta crescita demografica e bassa crescita economica sono i due fattori che da qualche decennio segnano il ristagno delle società di mercato, riducendo le opportunità di mobilità sociale e aumentando le diseguaglianze sociali. Si delineano così i caratteri di un capitalismo patrimoniale in cui la ricchezza assume la forma statica di rendite immobiliari e finanziarie, mentre diventa sempre più difficile creare nuova ricchezza attraverso il profitto e il lavoro, sfruttando le potenzialità dinamiche del mercato. In una società che si caratterizza come statica le diseguaglianze tenderanno ad aumentare e per le aree periferiche come il Sud, che già hanno poco goduto delle opportunità offerte dal mercato, le conseguenze del ristagno sociale saranno ancora più drammatiche.

In questa prospettiva va letta la proposta avanzata da Enrico Letta che ha suscitato un inteso dibattito, muovendo le acque stagnanti della politica italiana intorpidita dalla pandemia. Cosa ha proposto il segretario del Partito democratico? Rivedere in senso progressivo le aliquote esistenti su successioni e donazioni superiori ai 5 milioni di euro (portando al 20% l’aliquota massima e mantenendo la franchigia di un milione di euro) al fine di creare fondi per i diciottenni meno abbienti. Si tratta di una proposta redistributiva che colpirebbe i patrimoni dell’1% della popolazione, i più ricchi, concedendo una piccola dote di 10mila euro a circa 280mila giovani poveri (la metà del totale dei diciottenni, cioè la “Covid Generation” che ha subito di più gli effetti negativi della pandemia) che dovrebbero utilizzarla per continuare gli studi, promuovere progetti imprenditoriali o accedere ad alloggi autonomi.

Come lo stesso Letta ha sottolineato, l’imposta di successione è in Italia tra le più basse d’Europa: al 4%, mentre è al 30 in Germania, in Spagna al 34, in Gran Bretagna al 40 e in Francia al 45; nel nostro Paese il gettito è pari a 800 milioni di euro contro i 7 miliardi della Germania, i 6 del Regno Unito e i 14 della Francia. Come ci insegna la teoria economica, l’utilità marginale di un euro per un contribuente ricco (il cui patrimonio è di 5 milioni di euro) è infinitamente più bassa dell’utilità marginale di un euro per il giovane diciottenne senza mezzi. In questo senso l’effetto redistributivo del prelievo, calcolato in circa 2,8 miliardi di euro annui, aumenterebbe il benessere sociale (accrescendo il benessere dei più poveri) senza intaccare il benessere dei più ricchi.

Del resto la proposta non si caratterizza come una patrimoniale, cioè un prelievo forzoso una tantum, ma come un’imposta di scopo legata alla successione dei patrimoni più ingenti. Inoltre la misura sarebbe finanziata senza ricorso al debito, scelta positiva per un Paese che ha un elevato debito pubblico. È ovvio che la maggior parte della redistribuzione si concentrerebbe nel Sud dove la povertà è più diffusa e si aggiungerebbe ad altri strumenti finalizzati a ridurre le diseguaglianze e l’indigenza come il reddito di cittadinanza. Se il premier Mario Draghi non avesse subito “bruciato” la proposta come inopportuna, si potrebbe entrare nel merito dell’iniziativa del Pd apprezzandone l’obiettivo di equità sociale, ma limitando le tentazioni assistenzialistiche.

La dote concessa ai diciottenni più poveri dovrebbe essere legata a politiche attive per il lavoro indirizzate soprattutto alla formazione che, con termine anglosassone, si chiamano misure di “workfare”, cioè assistenza condizionata ad attività di formazione e di lavoro. In questa prospettiva la dote andrebbe limitata solo alla formazione, mentre appare irrisoria e inutile la cifra di 10mila euro per avviare attività imprenditoriali e ingiustificato il finanziamento per l’alloggio. Forse la proposta di Letta meritava più attenzione, anche in vista del Recovery Plan.