La recensione
La Roma di Mussolini, così è nata “Una capitale per l’Italia”. Il volto di un Paese cambiato dal fascismo nel libro di Ernesto Galli della Loggia

Sembra quasi un baedeker, perché, fin dalle prime pagine, l’autore, nato e vissuto a Roma, ti porta a spasso tra le piazze e i monumenti della sua città. In realtà, Ernesto Galli della Loggia (Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista, Il Mulino 2024) immerge il lettore in un tema di grande respiro, com’è la nascita della capitale di una nazione. E in un nodo mai sciolto del discorso pubblico italiano, com’è la natura del mussolinismo.
Descrive la trasformazione della Roma papalina e umbertina in una metropoli che, negli anni Trenta del ‘900, diventerà il simbolo monumentale e il cuore pulsante dell’Italia intera. E poiché tutto ciò s’intreccia con l’avvento del fascismo, finisce per affrontare il giudizio sul regime più controverso della nostra storia, restituendogli tutta la sua complessità e, se vogliamo saltare alle conclusioni, mostrando come e quanto l’Italia repubblicana sia figlia dell’Italia fascista. Come e quanto la Roma felliniana della Dolce vita sia figlia della Roma di Margherita Sarfatti e Giuseppe Bottai. Un libro denso e molto bello, che andrebbe letto con animo libero soprattutto dalla mia generazione, da noi boomers nati e cresciuti negli anni ruggenti dell’americanizzazione e dell’antifascismo, noi che spesso abbiamo dimenticato chi erano i nostri padri, quali le nostre radici. In questo senso, le pagine di Galli della Loggia diventano sì un baedeker, ma un baedeker esistenziale. L’autore lo sa, sta parlando anche della sua vita, con sincerità, talvolta con nostalgia.
Quando arriva il fascismo, le chiese e i palazzi di Roma spiccano su un tessuto medievale di viuzze, botteghe, povere case, baracche. E gli spazi verdi dov’è ancora possibile trovare le greggi al pascolo. Certo, dal 1871 la città è il teatro della politica, vive attorno a piazza Colonna, al Parlamento, a palazzo Chigi. Ma resta un corpo estraneo al Paese, la politica è poco amata, Roma è poco amata. E sarà Mussolini a rendersi conto del tesoro culturale e politico nascosto nella sua storia: “È destino che Roma torni ad essere la città direttrice di tutto l’Occidente d’Europa”, ha detto nel 1917. Cinque anni dopo, inventa il rito fondativo della rivoluzione fascista con la Marcia che lo incorona. Il Duce intende essere il campione della romanità. E ordina di riportare alla luce i segni sontuosi di quell’epopea. Arrivano gli sventramenti, il reticolo medievale è raso al suolo, i suoi abitanti spediti nelle “borgate”. L’archeologia la fa da padrona.
In tempi assai brevi vengono liberati dalla maglia urbana che li costellava il Foro Romano, il Colosseo, il Campidoglio. “I monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine”, ha detto Mussolini. Che, nel frattempo, trasloca da palazzo Chigi a palazzo Venezia, da dove lo sguardo può spaziare sulla nuova scenografia archeologica. Tanto deplorati in età repubblicana (ma cos’altro si poteva fare, chiede l’autore?), gli sventramenti costruiscono con grande efficacia il mito politico del fascismo, il passato imperiale dell’Urbe. Il progetto mussoliniano, tuttavia, non si ferma al recupero del passato. Edifica una capitale moderna. La arricchisce di opere memorabili, gli impianti sportivi del Foro Italico, lo stadio Olimpico, lo stadio dei Marmi, il palazzo delle Terme. E lo Studium Urbis, un campus universitario da 210.000 mq. E, ancora, l’Eur, il palazzo della Civiltà Italica, il palazzo dei Congressi, il palazzo delle Forze armate (oggi Archivio centrale dello Stato).
C’è un’idea di grandezza nell’urbanistica fascista, scrive Galli della Loggia, che poi la Repubblica rinnegherà, preferendo una “avveduta modestia”, evitando opere appariscenti. La Roma mussoliniana invece lavora sull’immagine. La politica diventa immagine, marmi bianchi, statue, colonnati, grandi vetrate, mosaici. E chiama a sé una schiera di architetti e urbanisti eccellenti, spesso giovani, innamorati del Bauhaus e di Le Corbusier, interessati a tecniche nuove come il cemento armato, in perfetta sintonia con il messaggio fascista di energia, efficienza, rottura degli schemi. E modernità. “Io sono per l’architettura moderna, razionale e funzionale”, dice Mussolini e nel 1932, commissionando a Mario De Renzi e Adalberto Libera (rispettivamente 35 e 29 anni) il grande padiglione della Mostra della Rivoluzione Fascista, chiede loro “una cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato”. E chiede velocità. La sua è “una smania realizzativa, un’invincibile ansia di fare”, scrive Galli della Loggia. Che naturalmente è anche volontà di controllare tutto.
E la modernità dilaga. Si moltiplicano i servizi, centrali elettriche, un acquedotto, il gigantesco gasometro dell’Ostiense, la centrale del latte, i collettori fognari, gli argini del Tevere, e poi ospedali, palestre, campi sportivi. “Una grande opera di avanzamento civile”, annota Galli della Loggia, che spesso la polemica antifascista ha negato. Ma il consenso al regime nasce qui. La città rompe i suoi storici confini. L’autostrada per Ostia la proietta verso quel mare che promette un destino imperiale e che diventa, nel frattempo, la spiaggia dove si riversano, in auto o in treno, migliaia e migliaia di romani di ogni ceto sociale per bagnarsi, prendere il sole, pranzare, giocare a carte, ballare al tramonto. A Ostia, nel dopoguerra, abitava un centinaio di pescatori. Diventa, pochi anni dopo, la meta di un’umanità spensierata, serena, moderna. Potrebbe essere Deauville o Coney Island. Ma allora, si chiede l’autore, “chi può dubitare che il fascismo abbia veramente cambiato il volto dell’Italia?”
La città raddoppia la popolazione. E non attrae soltanto, a centinaia di migliaia, i provinciali che trovano lavoro nelle amministrazioni pubbliche. Attrae scrittori, artisti, letterati, giornalisti. Diventa la capitale della cultura, surclassando Firenze. Qui hanno sede nuove istituzioni come il CNR, l’Istituto di Statistica, l’Accademia d’Italia, l’Enciclopedia Italiana. Qui nasce nel 1927, in via Asiago, l’Eiar. E poi Cinecittà, 60 ettari di teatri di posa, uffici, laboratori, mense, ristoranti. C’è n’è quanto basta per spiegarsi il fascino che la capitale esercita sull’intera intellighentia italiana. Vi si respira una straordinaria vivacità culturale. Anche libertà? Mussolini dice di non volere un’estetica di regime e di certo, osserva Galli della Loggia, ogni paragone con una Germania che costringe all’esilio i propri cervelli sarebbe privo di senso.
A Roma, le nuove gallerie d’arte ospitano Manzù e Levi, Guttuso e Barilli, pubblicano cataloghi firmati da Alvaro e Moravia, sono frequentate da ministri come Bottai. A Cinecittà lavorano alle sceneggiature Flaiano, Soldati, Brancati, Zavattini. Nascono testate su cui scrivono Falqui e Anceschi, Pirandello e Cecchi, Trombadori e Ungaretti. Furoreggia la contaminazione dei generi e lo sperimentalismo. Come nella Casa d’Arte Bragaglia, cinque gallerie, una sala da ballo, un locale notturno, un teatro decorato da Balla e Depero. Aperta dalle 9 di sera alle 8 di mattina. La Roma degli anni Trenta ha preso l’abitudine di uscire di sera. L’élite va a cena alla Casina Valadier, alla Birreria Dreher, alla Birreria Albrecht, a Villa Borghese. Tra piazza del Popolo e via Veneto è tutto un ingorgo di persone e auto. Ci sono gli arrivati e gli aspiranti, i giovani di buona cultura e di belle speranze, i ceti medi di provincia attratti dalla modernità.
Il Paese ha una capitale. “Roma è l’Italia”, proclama Bottai nel 1935. Ma fino a che punto Roma è anche il fascismo? Difficile credere che quella società istruita, affluente, ambiziosa diventi un docile strumento del regime. Più probabilmente – riflette Galli della Loggia – essa si è aperta al fascismo, finendo per assorbirlo, per metabolizzarlo, finendo anche, in qualche misura, per neutralizzarlo. Certo è che, mentre Mussolini sparirà nell’inferno della guerra e di Salò, la nuova classe egemone emersa durante il Ventennio gli sopravviverà a lungo, diventando “il cuore dell’Italia repubblicana”.
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