Al termine dell’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi e gli altri leader sindacali, il segretario della Cgil, Maurizio Landini ha commentato lapidario: “Numeri non ci sono stati fatti. Ci si è fermati a temi come la difesa del potere d’acquisto, la precarietà, il salario minimo ma al momento non abbiamo risposte”. Aggiungendo: “Sul piano del metodo c’è una novità, non su quello dei contenuti”.

Il metodo cui accenna Landini è l’annuncio dell’apertura di tavoli, a partire dal 23 luglio, su cuneo fiscale, lotta alla precarietà del lavoro e salario minimo partendo dalla proposta del ministro del Lavoro, Andrea Orlando. E proprio Orlando, alla conferenza stampa indetta da Draghi a seguire ha dichiarato che “l’ipotesi su cui lavoriamo”, e che avrebbe raccolto un preliminare consenso, “riguarda la possibilità di usare come riferimento contratti più diffusi o firmati delle organizzazioni maggiormente rappresentative. Significherebbe legare il minimo salariale per comparto alla migliore e più diffusa contrattazione”.

In queste ore, intanto, è arrivato il via libera della commissione Lavoro del Parlamento europeo al testo della Direttiva Ue sul salario minimo (a settembre, il testo definitivo) che punta a istituire un quadro per fissare salari minimi adeguati ed equi per contrastare il problema in crescita dei working poors, rispettando però le diverse impostazioni nazionali dei Paesi membri e dei diversi modelli europei di relazioni industriali tra parti sociali. Infatti, il quadro europeo è molto variegato.  Il salario minimo esiste in tutti gli stati membri dell’Unione europea. E la scelta di affidare alla legge o alla contrattazione collettiva il compito di determinare il livello minimo è dunque coerente con le tradizioni dei sistemi di relazioni industriali presenti nei singoli paesi.

La distinzione fondamentale tra i regimi europei riguarda il campo di applicazione: di tipo universale, dunque applicabile a tutti i lavoratori, oppure settoriale, in quanto destinata a settori o gruppi di occupati. Nettamente prevalente è il primo regime, presente in 22 paesi su 28; nel secondo rientra l’Italia, insieme ai paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia) e l’Austria. Quest’ultimo blocco di paesi membri utilizza il contratto collettivo con alti livelli di copertura: in Italia, parliamo del 97% dei lavoratori, secondo ADAPT, l’istituto di studi comparati su diritto del lavoro e relazioni industriali guidato da Michele Tiraboschi.

Tuttavia, è vero o è falso che in Italia abbiamo almeno due milioni di lavoratori  non coperti dalla contrattazione collettiva, sfruttati, con paghe da fame, e che il sistema delle relazioni industriali è in realtà collassato e lo dimostrerebbero le centinaia di contratti-pirata?  Alcune riflessioni sul tema del salario minimo sono state tracciate, entro la cornice del festival di Montepulciano (Si) “Luci sul lavoro” – https://lucisullavoro.org/ – da Tiziana Nisini – Sottosegretaria al Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, Luca Visentini – Segretario Generale Confederazione Europea dei Sindacati, e Marco Marazza – Università Cattolica del Sacro Cuore.

Secondo Tiziana Nisini, “dobbiamo puntare a rafforzare la contrattazione collettiva e il dialogo tra le parti sociali affinché si arrivi ad un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e un potenziamento del valore di acquisto delle famiglie. Parlare di salario minimo, in questo momento, è sbagliato e anacronistico. Non possiamo permetterci una gara al ribasso né essere potenziali sostenitori di uno svantaggio competitivo nell’indotto occupazionale. È nostro dovere favorire un raccordo tra la produttività e lo sviluppo delle carriere individuali per rendere più stabili tutte le variabili che oggi creano incertezze e favoriscono la decrescita economica”.

In effetti, la pubblicazione, alcune settimane fa, di un rapporto Ocse sulle dinamiche salariali degli ultimi 30 anni, ha certificato l’ultima posizione dell’Italia nel confronto europeo: siamo l’unico paese a segnare un valore negativo (-2,9 per cento) mentre i lavoratori di tutti gli altri paesi europei hanno visto crescere le retribuzioni reali in misure che variano dal 63 per cento della Svezia (che non ha il salario minimo legale), all’oltre il 30 per cento di Francia e Germania. Trattandosi però di una patologia cronica di cui l’Italia, per l’appunto, soffre da decenni, c’è da chiedersi: ma è davvero la mancanza di una legge sul salario minimo la causa della stagnazione dei salari?

Secondo Visentini, “l’Italia non ha bisogno di un salario minimo legale, ma di rafforzare la contrattazione collettiva ed estenderla a tutti i lavoratori e lavoratrici, a prescindere dal loro rapporto di lavoro. Il rafforzamento della contrattazione collettiva è lo strumento essenziale per affrontare l’emergenza salariale in Italia, il paese in Europa dove le retribuzioni sono cresciute di meno negli ultimi anni. Inoltre relazioni industriali efficienti e diffuse sono essenziali per aumentare la competitività e produttività del nostro sistema economico, favorendo anche la crescita del nostro tessuto di imprese troppo debole e frammentato”. I dati ISTAT (novembre 2020) rilevano retribuzioni contrattuali orarie lorde da un minimo di 6,15 euro degli operai agricoli con la qualifica più bassa ad un massimo di 56,85 euro per le figure apicali del settore del credito, con un valore medio di 14,00 euro e mediano di 12,57 euro.

I dati mostrano come i lavoratori che si trovano nelle posizioni a più bassa retribuzione sono appartenenti a categorie che sono le più svantaggiate sul mercato del lavoro. Ma questo non può dipendere dai salari fissati dalla contrattazione collettiva, perché questa non discrimina tra uomini e donne, italiani e stranieri. Pertanto, il problema del lavoro povero non pare potersi attribuire alle retribuzioni fissate dalla contrattazione collettiva, piuttosto alla modalità di applicazione dei contratti nei confronti delle diverse categorie di lavoratori o nei diversi contesti (aziendali o geografici) e alle caratteristiche del rapporto di lavoro. Il problema dei lavori a bassa retribuzione dovrebbe essere ricercato nell’alta diffusione del lavoro irregolare che lascia i lavoratori privi di ogni tutela, compresa quella relativa ai salari minimi contrattuali.

Riflette Marco Marazza: “Una legge che fissa il salario minimo in Italia rischierebbe davvero di alimentare una pericolosa disapplicazione dei contratti collettivi, con possibili vuoti di tutela. La soluzione, a mio avviso, è lasciare la dinamica salariale alla contrattazione collettiva, ma adottando una non più rinviabile legge sulla rappresentanza sindacale. Trovo positiva l’impostazione della proposta di direttiva, che lascia la possibilità di affidare la materia alla contrattazione, ma forse troppo ambiguo il suo campo di applicazione che, per la definizione di lavoratore, rinvia alla giurisprudenza della Corte di giustizia: un tema così importante dovrebbe essere deciso nelle opportune sedi politiche e non demandato alla giurisdizione”.

La contrattazione collettiva è molto di più della semplice “fissazione di un salario”: è un “processo sociale di costruzione e crescita dei mercati del lavoro” – come scrive il giuslavorista Michele Tiraboschi – delle professionalità, del welfare negoziale e contrattuale che “concorre a creare i presupposti della produttività e della creazione di valore che è la sola ricetta credibile per impostare il problema redistributivo”. Invocare, allora, il salario minimo legale come soluzione per tutelare le fasce di lavoratori che percepiscono basse retribuzioni significa non conoscere le dinamiche retributive né le relazioni industriali.

 

 

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi