“Presidente, è inutile che chiedi a noi cosa faremmo se avessimo la maggioranza quando sei tu ad averla ma non sai bene cosa fare”. Ma no, “non è vero – ha replicato Meloni – io voglio dare stabilità e garantire la volontà del popolo…”. Che, se fosse una favola, è un po’ come dire l’erba-voglio-che-non-cresce-neppure-nel-giardino-del-re.

Quelli che si sono formati nella cultura radicale, alla Pannella per intendersi, sono fatti così: hanno il pregio o il difetto di mettere sempre il re a nudo. Di smascherare i trucchi. La delegazione di +Europa ha incontrato la delegazione della maggioranza guidata dalla premier Meloni intorno alle 16. Dopo Italia Viva-Azione e prima di Verdi e Sinistra. E forse non è un caso che, sempre martedì, il capogruppo della Lega alla Camera abbia voluto ricordare che nel programma del centrodestra si parla di “elezione diretta del Presidente della Repubblica e non del premier. In questo caso, se questo fosse l’obiettivo, la Lega chiederà garanzie sul ruolo del Parlamento”.

E insomma, per farla breve e coinvolgere anche i non esperti di riforme costituzionali, quella di martedì, nonostante gli accorgimenti scenografici e la ritualità da consultazioni per il governo (sala della Biblioteca per gli incontri, sala della Regina per i briefing stampa, siparietti vari nel corridoio che unisce le due sale) ha il suono sinistro di un boomerang che sta tornando indietro. Giorgia Meloni è stata abile nel far partire la stagione delle riforme, “la madre di tutte le battaglie” come dice lei (e non solo lei) nonché “la più valida misura economica”.

Si è ripresa la scena, ha legittimato il proprio ruolo davanti agli alleati, ai cittadini e alle opposizioni. La stessa segretaria del Pd, quella del motto “saremo un grande problema per il governo Meloni”, avrà anche detto No a tutto o quasi (con molti distinguo), ma poi si è seduta su quella sedia nella Sala della Biblioteca e alla fine dell’incontro durato oltre un’ora è stata a tu per tu con Meloni con stretta di mano e abbraccio finale. Che si saranno dette, chissà. Le delegazioni sono state tenute lontane. Di sicuro poco dopo Schlein ha risposto ai giornalisti in sala della Regina.

E lo stesso ha fatto la premier per buona ultima come si confà a chi deve tirare le fila. Ora però questa bomboniera di pizzi e trine è stata sporcata non dalle opposizioni che hanno fatto esattamente quello che si sapeva avrebbero fatto: dire la loro, nel metodo e nel merito con le rispettive e già note differenze. E’ stata sporcata dal fuoco amico, cioè dalla Lega.

Quando, fin dalla mattina, per bocca del capogruppo Molinari, Salvini ha iniziato ad alzare il prezzo. E a specificare che la riforma possibile è una sola, quella scritta nel programma: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ben sapendo, Salvini, che dire questo vuol dire far bloccare subito il cantiere delle riforme visto che la stessa premier ha detto: “Se devo dire oggi, adesso, cosa ha più probabilità di andare avanti, direi l’elezione diretta del premier…”.

Con buona pace, appunto, dell’aut aut di Salvini. Che infatti ieri è sembrato a molti colto da sindrome da “ballo di Vito”, che è quando non si riesce a stare fermi. Il vicepremier e segretario della Lega ha resistito per una, forse due consultazioni (+Europa e Terzo Polo). Nelle altre è andato e venuto: si è perso una buona metà di quella con i 5 Stelle e anche quella della Schlein e del Terzo Polo. “Ho i cantieri da aprire e mandare avanti” si è giustificato mentre proprio martedì alla Camera l’aula votava la conversione del decreto Ponte sullo Stretto. Diciamo che ha cercato nel suo piccolo di non legittimare troppo la premier.

Il problema vero si chiama autonomia regionale differenziata. Ed è stato il convitato di pietra di tutta la giornata. E di quelle che verranno. Anche nel balletto di smentite e limature rispetto alla necessità di eleggere direttamente il Capo dello Stato “o comunque un governo” (posizione leghista in questo caso più vicina a Meloni), quella sull’Autonomia regionale è la vera questione. Salvini ha precisato anche ieri “Avanti con la riforma costituzionale che però ha i suoi tempi (nel caso, servirà tutta la legislatura, ndr) e avanti anche con l’autonomia che invece può essere realizzata subito”.

Il punto è che il segretario della Lega già sa che non si farà neppure questa volta: non la vuole Forza Italia e neppure Fratelli d’Italia. E se il ministro per le riforme Roberto Calderoli continua a ripetere “in sei mesi siamo pronti anche con i decreti delegati”, la verità è che mancano i soldi pubblici per finanziarie i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) in modo che nord e sud abbiano le stesse opportunità almeno in partenza. Proprio ieri si è insediata la Commissione per i Lep, 61 esperti nominati da Calderoli: sono stati divisi in tanti gruppi quante sono le materie che saranno oggetto di trasferimento alle Regioni. Diceva ieri un deputato di Forza Italia: “Finora siamo stati compatti anche se è chiaro che Sicilia e Calabria non sono d’accordo. Ma è chiaro che questo governo, di questi tempi, non potrà finanziare i Lep che sono il presupposto funzionale della legge”. Tutto questo non piace ai leghisti. E fu così che l’operazione immagine di Giorgia Meloni è stata subito macchiata dal solito guasta feste Matteo Salvini.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.