Come promesso, con questo secondo numero completiamo un racconto che, in realtà, potrebbe continuare a lungo: le storie calabresi – alcune davvero incredibili – di vicende giudiziarie clamorose terminate nel nulla. Anticipiamo subito la scontata obiezione dell’arbitrio statistico di questo racconto, sospettabile di essere una selezione chirurgica di insuccessi accusatori, tacendo dei successi. La risposta sta nei numeri ufficiali: poco meno della metà delle liquidazioni di risarcimenti per ingiusta detenzione a carico dello Stato nel solo 2022 riguarda casi giudiziari definiti nei distretti di Corte di Appello di Catanzaro e Reggio Calabria.

I numeri: in Calabria quasi la metà dei risarcimenti giudiziari

Che dunque in Calabria si abusi delle manette, è semplicemente un dato di fatto. E le storie che abbiamo raccontato – e che magari continueremo a raccontare – testimoniano anche di un secondo abuso, non meno allarmante e soprattutto non meno significativo: quello del reato (o dell’aggravante) di mafia. Tutto ciò su cui si indaga, in questa terra difficile, appare destinato ad essere marchiato dalla connotazione mafiosa, troppo spesso destinata poi a scolorirsi, quando non a dissolversi del tutto. Chi frequenta queste vicende giudiziarie calabresi sa che una indagine su qualunque ipotesi di reato di qualche minima consistenza sembra non poter fare a meno del contesto ‘ndranghetistico: un concorso esterno o una aggravante del metodo mafioso, parliamoci chiaro, non si nega a nessuno, se l’indagine vuole avere una qualche visibilità e credibilità.

L’abuso dei reati di mafia e i danni irreparabili

L’esito dei giudizi farà poi assai spesso giustizia di questo abuso, ma dopo molto tempo, e soprattutto quando il danno è ormai irreparabile. Perché, lo comprenderete benissimo, altro è, per un amministratore pubblico, per i proprietari di una clinica, per un imprenditore, essere indagati e processati per ipotesi di reato, come dire, ordinariamente connesse all’attività svolta; ben altro è esserlo come associati ad una cosca, o concorrenti esterni ad essa, o come persone che adottano modalità mafiose nel commettere quei reati ordinari. La differenza è devastante: sia per la durezza delle conseguenze detentive e della loro modalità esecutiva, sia soprattutto per lo stigma sociale dal quale si viene marchiati, e per le conseguenze professionali ed economiche semplicemente irrimediabili.

L’accanimento giudiziario

Ora noi, sulla scia di questo lungo e drammatico racconto che abbiamo voluto farvi in questi due numeri di PQM, reiteriamo le nostre semplici domande: come è possibile che non si apra una riflessione su tutto ciò? Un qualche dibattito, una qualsivoglia riflessione critica, nei media, nella politica, nella società? Come è possibile, per esempio, che sia rimasta senza alcuna conseguenza quella accusa, scritta nero su bianco in una sentenza della Corte di cassazione, di “accanimento giudiziario” accusatorio nei confronti di un esponente politico democraticamente eletto e giudiziariamente disarcionato dalla carica senza alcuna ragione?

Non sono critiche contenute in qualche libello polemico, sono parole scritte – immaginiamo con quanta ponderazione e prudenza – da un Collegio di Giudici della Suprema Corte di cassazione: davvero non valgono nulla, non producono nulla, non impongono una qualche discussione, almeno? Occorrerà pur chiedersi la ragione di questo mortificante silenzio, e darne un senso, una spiegazione. Noi almeno abbiamo provato a romperlo, quel silenzio, raccontando fatti, storie, numeri. Servirà? Come amava ripetere sempre un grande leader politico a me molto caro, Marco Pannella: si faccia quel che si deve, accada quel che può.

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